Vittima, LA PAROLA DEL GIORNO A CURA DEL PROF. INNOCENZO ORLANDO
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Vittima
vìt-ti-ma
Significato Animale la cui vita è offerta ritualmente in sacrificio; chi perde la vita o subisce danni gravi per crimini o calamità; chi soggiace a prepotenze e ingiustizie; chi subisce gli effetti di vizi o difetti
Etimologia voce dotta recuperata dal latino victima ‘animale sacrificale’.
«E certo, adesso fa la vittima!»
(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)
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Questa parola è in auge, al suo massimo storico d’uso in italiano. Ma perché? E soprattutto, con quali effetti?
Non dobbiamo pensare che ‘vittima’ sia una parola neutra, asciutta, pianamente didascalica per indicare chi subisce un danno — specie chi perde la vita. È una parola che ci presenta una metafora fortissima, radicata come solo pochi concetti sanno essere, e molto eloquente, ricca di implicazioni e sfumature di forte sentimento.
Il latino victima indica l’animale offerto in sacrificio. L’etimo è dibattuto, ma la ricostruzione riportata con maggior frequenza e convinzione lo trova imparentato con vicis, cioè ‘scambio’. L’immolazione della bestia sacrificale concretizza uno scambio con la divinità — un do ut des, un pareggio di conti. Idea primigenia e tremenda, che peraltro dà una grande profondità al concetto di ‘vittima’: la vittima non c’entra niente, è uccisa smembrata e bruciata e consumata per un calcolo atroce che non la riguarda — figura universalmente patetica, inerme, incarnazione d’innocenza, la cui morte comunque è profondamente desiderabile per i buoni effetti magici che produce.
È questo l’immaginario a cui tanto spesso attingiamo per indicare chi viene ucciso, a chi patisce il disastro. Ma ci serve questa retorica rovesciata a sacchi, che copre con vibrante e commovente concetto di sacrificio ciò che assolutamente e ovviamente non è sacrificio? Sono morti e disastri che hanno l’aria di un risarcimento, di un buon prezzo?
Se ci piace usare questa parola per parlare di vittime della strada, di vittime di violenza, di vittime di calamità naturali, stiamo accettando quel paradigma. E non è che il cambiamento nell’uso della parola valga a sradicarla, a rifondarla, a obliare il suo passato: anche noi lo sentiamo benissimo che ‘vittima’ è una rappresentazione patetica, che odora di poverino — pensiamo a con che animo parliamo di chi ‘fa la vittima’. E odora pietosamente di poverino perché si porta in pancia l’ipocrisia originaria intorno all’innocente ammazzato per uno scambio magico. Però certo… è una parola con un pregio specifico ed enorme.
Nella sua veste semantica di ‘chi subisce la morte o un grave danno’, che poi si estende a chi patisce prepotenze e ingiustizie (vittima dell’intolleranza), e a chi subisce vizi propri o altrui (vittima della propria sicumera) non ha sinonimi che possano compararsi alla sua nuova versatilità e al suo lirismo — nuova perché prende queste pieghe dall’Ottocento.
Quelli veri, cioè quelli che aderiscono al significato originario, portano immagini inconcepibili per chi come noi abbia perso il vero sapore della vittima: ‘martire’, ‘perseguitato’, ‘capro espiatorio’ sono parole che vivono alla luce del sole in ambito sacrificale — ma parleremmo di martiri della violenza dove di solito parliamo di vittime? Avrebbe un senso agghiacciante e impertinente di offerta e testimonianza.
Quelli che invece si volessero concentrare sul fatto di danno in sé, senza parlare di scambi sacrificali, non hanno altrettanto mordente, o mancano, e servono perifrasi. Abbiamo morti, abbiamo caduti.
Quindi la vittima, pur in questa maniera non solo esagerata, ma penosa e svenevole, in effetti sembra che si rimbocchi le maniche e colmi una lacuna. Ma abbiamo anche un’altra possibilità, che peraltro tutela la concezione del sacrificio, senza stemperarla mescolandola ad altro.
«Una rosa è una rosa è una rosa è una rosa», scriveva Gertrude Stein.
Non sempre i salti metaforici sono un bene. Anche stare ben aderenti alla realtà, senza sensi secondi, sa darci scorci importanti — e può farci dire con poesia immanente, ficcata nel mondo, ciò che c’è da dire.
Possiamo parlare di persone morte, di persone che hanno subito, di persone che sono state colpite, di persone che hanno perso qualcosa — vite, salute, case. Non sono agnelli sacrificati da qualcuno che si stringe nelle spalle perché comunque andava fatto, il loro dolore non è un tributo, e merita disincanto, merita la sincerità ruvida per cui un dolore è un dolore è un dolore è un dolore, una perdita è una perdita è una perdita è una perdita.
Squadernare immagini tremende non ci piace, di solito: preferiamo una conveniente copertura pietosa e patetica che ci permetta di evitare di dar troppo corpo a ciò di cui parliamo. All’orecchio ‘vittima’ non si collega subito ad altre parole, non è troppo concreta, non è troppo reale. E i suoi vantaggi nell’economia della lingua sono innegabili. Però se vogliamo prenderci la briga di evocare davvero ciò che ci preme comunicare, senza sacrifici che non sono sacrifici, senza patetismi immeritati, abbiamo la libertà di farlo. E può essere più onesto. Può esser meglio.