19a Festa del Cinema di Roma, al via con “Berlinguer. La grande ambizione” e “Nickel Boys”
La Festa del Cinema di Roma punta nuovamente su un titolo italiano per inaugurare il suo cartellone. Dopo “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi nel 2023, quest’anno a dare il via alla manifestazione capitolina (16-27 ottobre, Auditorium Parco della Musica), diretta da Paola Malanga e presieduta da Salvatore Nastasi, è “Berlinguer. La grande ambizione” firmato da Andrea Segre. A interpretare il segretario del Partito comunista italiano nel complesso decennio ’70 è Elio Germano, che ne restituisce densità di pensiero, dimensione etica e umanità. Un racconto in chiaroscuro tra pagine di storia, correnti di partito e tensioni sociali, non rinunciando a un efficace sguardo introspettivo sia di Berlinguer che di Aldo Moro, capofila di un sogno di rinnovamento sociale deragliato sotto i colpi del terrorismo e di una politica “gattopardiana”. Al via anche Alice nella Città, sezione autonoma e parallela della Festa, che punta su “Nickel Boys” di RaMell Ross, dal romanzo Premio Pulitzer di Colson Whitehead. Un film denuncia sui diritti degli afroamericani negli Stati Uniti degli anni ’60, in particolare sulla condizione di adolescenti percossi e segregati in riformatori. Il punto dalla Festa.
“Berlinguer. La grande ambizione”
Veneto, classe 1976, il regista-sceneggiatore Andrea Segre si è formato come documentarista prima di esordire nel lungometraggio nel 2011 con “Io sono Li”. Il suo cinema è scandito da una chiara presenza di temi sociali e forse è proprio per questo che ha sposato con convinzione il progetto dedicato a Enrico Berlinguer, storico segretario del Pci, in carica dal 1972 al 1984. Nel 2024 ricorrono i quarant’anni dalla sua morte ed è la giusta occasione per tornare ad approfondire la sua figura in relazione alle complesse pagine storico-politiche del tempo, segnate da incertezza economica, tensioni internazionali legate alla polarizzazione della Guerra fredda e da una crescente escalation terroristica culminata con il rapimento e l’omicidio del segretario della Dc Aldo Moro. Così è nato “Berlinguer. La grande ambizione” diretto da Segre su un copione firmato insieme allo sceneggiatore Marco Pettenello (ha scritto gli ultimi film di Carlo Mazzacurati e “La chimera” di Alice Rohrwacher). Protagonista Elio Germano, affiancato da Elena Radonicich, Paolo Pierobon, Roberto Citran, Andrea Pennacchi, Giorgio Tirabassi e Fabrizia Sacchi. Il film sarà nelle sale dal 31 ottobre con Lucky Red.
La storia. Roma 1972, Enrico Berlinguer alla guida del Pci è impegnato in un difficile percorso di rinnovamento, tanto nel suo partito quanto nella politica italiana. Anzitutto sta cercando di smarcarsi dall’influenza sovietica per guardare a un modello di azione di respiro europeo, più indipendente. Dall’altro lato, la sua attenzione è rivolta al Paese, dove vede montare disparità e crisi del sistema democratico. Forte di un pensiero proteso a un’idea di uguaglianza sociale, inizia a tessere con Aldo Moro, alla guida della Dc, l’audace progetto del “compromesso storico”: un governo condiviso. Resistenze e opposizioni si manifestano nei palazzi del potere e nella società, fino a divampare in azioni terroristiche irreparabili…
“Ho deciso di misurarmi con questa sfida – ha indicato il regista – e due sono stati i cardini che mi hanno aiutato ad arrivare fin qui: da una parte il rispetto della serietà e della sobrietà di Enrico, dall’altra la scelta di non imitare mai, ma di provare sempre a capire. Raccontare la politica non attraverso slogan e simboli, ma immergendosi nella vita di chi la sente parte irrinunciabile dell’esistenza. Aver scelto Elio Germano come protagonista è stato essenziale, perché sapevo che anche lui avrebbe lavorato per comprendere e non per rappresentare”.
Andrea Segre ha voluto raccontare Enrico Berlinguer tra pubblico e privato, restituendo il ritratto di un uomo a tuttotondo, fermo nelle sue idee e valori tanto negli scranni del Parlamento quanto nelle stanze di casa, con i suoi quattro figli Bianca, Maria, Marco e Laura. Un uomo retto negli ideali, ma morbido, aperto, nella prossimità umana, nell’incontro con i militanti di partito e gli “avversari” politici. Segre ci racconta l’ambizione di Berlinguer, quella di contribuire a (ri)disegnare una società italiana più giusta e responsabile, governando le crescenti disparità economico-sociali. Un sogno che ha condiviso con Aldo Moro. A bene vedere, il film di Segre elegge due protagonisti, Berlinguer e Moro, due “mosche bianche” in un sistema politico polveroso e asfittico, incapace di concepire e sposare il cambiamento. Loro due vengono tratteggiati come idealisti, due politici marcati da gentilezza e ascolto, in un ginepraio di giochi di potere, intercettazioni e invidie mascherate. Un progetto di collaborazione spezzato anzitempo dall’uccisione di Moro.
Nell’insieme, “Berlinguer. La grande ambizione” risulta un film attento e composto, desideroso di richiamare il trasporto politico del decennio ‘70 e al contempo tutti gli elementi di complessità e amarezza ad esso collegati. Un ritratto in chiaroscuro meticoloso, qua e là anche un po’ nostalgico, ma governato comunque con prudenza. Il copione non sempre gira scorrevole, ma va detto che la materia è di non facile controllo. Ottima la prova di Germano come pure di Roberto Citran. Consigliabile, problematico, per dibattiti.
“Nickel Boys”
Alla base c’è il romanzo Premio Pulitzer per la narrativa “I ragazzi della Nickel” (2019-20) di Colson Whitehead. Ad adattarlo per il grande schermo è il regista statunitense RaMell Ross, una produzione targata Plan B di Brad Pitt. È “Nickel Boys”, film di apertura di Alice nella Città, con protagonisti Aunjanue Ellis-Taylor, Ethan Herisse, Brandon Wilson, Fred Hechinger e Daveed Diggs.
La storia. Florida 1960, il giovane afroamericano Elwood, pronto a iscriversi all’università, è vittima di un arresto ingiustificato. Finisce nel riformatorio Nickel Academy. Lì, tra lavori forzati nei campi e nella struttura, fa la conoscenza del coetaneo Turner. spinto dalle parole di Martin Luther King, Elwood non smette di sognare la libertà, di essere scagionato dalle accuse e di poter riprendere gli studi; Turner, invece, vive l’esperienza del carcere minorile con cinismo e disillusione.
“Nickel Boys” non brilla solo per la forza di un copione che si muove su un tema ancora bruciante per gli Stati Uniti, tra violenze subite e riconoscimento dei diritti per la comunità afroamericana, ma anche per una regia che si mette in gioco in chiave ricercata e sperimentale. Il film, infatti, è girato quasi interamente in soggettiva, sposando lo sguardo prima di Elwood poi di Turner: la macchina da presa è ad altezza sguardo, in modo tale da spingere lo spettatore ad aderire al loro universo interiore, tra tenerezze familiari (quelle di Hattie, la nonna di Elwood), sogni di futuro e crudezze della realtà, con la sequela di violenze psicologiche e fisiche subite alla Nickel. La soluzione stilistico-narrativa di certo ha fascino, pronta a favorire comprensione ed empatia nel pubblico, salvo inciampare qua e là in alcuni eccessi da esercizio di stile. Nell’insieme un buon film, potente per densità e modalità di racconto. Consigliabile, problematico, per dibattiti.
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