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Scoppia la rabbia nel Regno Unito: ondate di protesta in tutto il Paese. L’appello alla pace dei leader religiosi

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Tra le immagini entrate nella rete globale dei social sull’ondata di disordini in Inghilterra, ci sono anche le foto di musulmani che abbracciano i manifestanti fuori dalla moschea più antica del Regno Unito. Siamo all’esterno della moschea Abdullah Quilliam di Liverpool. Anche qui, come nel resto del Paese, centinaia di persone si sono radunate per manifestare sull’onda della rabbia – anti migrante e anti musulmana – scattata nelle città di tutta l’isola dopo la morte di tre bambine in un centro estivo di Southport imputata al raptus di un 17enne. Quando la situazione si è calmata, i fedeli della moschea sono usciti e lì è successa una cosa che, alla luce di quanto sta succedendo in Inghilterra, sa dell’incredibile: manifestanti e fedeli della moschea si sono incontrati e hanno parlato insieme. Le foto – che sono oggi tra i post più positivi condivisi sui social media – mostrano momenti di condivisione di cibo, abbracci e strette di mano. Alcuni dei manifestanti sono anche entrati dentro la moschea per un piccolo tour di conoscenza. Il presidente della moschea, Abdul Hamid, medico di famiglia, ritiene che ci sia una “paura dell’ignoto”. E aggiunge: “L’estrema destra è uno spettro, quindi c’è chi è molto estremo, ma ci sono persone che hanno problemi, politici o personali, e hanno bisogno di sfogarsi. Se non si fornisce loro una piattaforma per farlo, scenderanno in strada di nuovo”.

(foto Bbc)

Intanto è salito a più di 400 il numero delle persone arrestate in relazione alle rivolte e ai disordini in tutto il Paese, secondo fonti di polizia citate dai media britannici. Si prevede che il numero continuerà a crescere nei prossimi giorni perché la situazione non è ancora tornata alla calma e la polizia è a conoscenza di potenziali altri eventi e raduni previsti per i giorni a venire. Il primo ministro britannico, Keir Starmer, ha presieduto ieri sera una nuova riunione di emergenza del comitato Cobra e ha chiesto “condanne esemplari”. “Il punto è che la società è divisa”, spiega da Liverpool Elisabeth Hachmoeller, co-ordinatrice di “Churches Together” nella regione del Merseyside e membro della comunità locale dei focolari. “Mentre tornavo dal lavoro – racconta – ho parlato sul pullman con una signora che vive proprio nella strada dove hanno messo a fuoco dei negozi. Lei mi diceva che tanti di questi ragazzi scesi per manifestare, sono figli di genitori che non hanno mai avuto lavoro. Non hanno mai avuto possibilità di seguire percorsi di formazione nelle scuole”. “Sono furiosi, hanno tanta rabbia dentro e le radici di questa rabbia sono profonde, perché c’è una disuguaglianza nella società che è diventata sempre più forte negli ultimi anni”. Elisabeth ha appena partecipato ad uno zoom organizzato dal Religion Media center sull’emergenza in atto nel paese. “L’impressione – dice – è che le persone che hanno appiccato fuoco, preso di mira le moschee e incendiato i negozi, siano organizzate e avevano già pianificato di fare queste cose prima ancora di quello che è successo a Southport, che ha rappresentato forse solo un motivo per far scattare la protesta in tutto il paese”. “In realtà – aggiunge la donna – neanche loro sanno esattamente cosa vogliono. Sono arrabbiati. Sono andati in un albergo dove c’erano degli immigrati e l’hanno attaccato”. In Inghilterra non si parla di “guerra civile”. Per descrivere quanto sta succedendo per le strade usano il termine “riots” che include i significati di rivolta, scontri, disordini, protesta, atti di vandalismo. “Ci sono persone – racconta Elisabeth – che hanno paura di uscire di casa. Lunedì, all’ora di pranzo, il responsabile dell’edificio dove è il mio ufficio ha detto agli impiegati di tornare a casa”.  Ma ci sono anche tante persone che si sono rese disponibili ad aiutare il comune a fare pulizia nei luoghi presi di mira dai manifestanti. “Io penso che bisogna imparare a parlarsi e a mettersi in ascolto di quello che l’altro sta cercando di dire. Ognuno vuole essere ascoltato e se sente di non essere ascoltato, diventa furioso. Non mi sento qualificata a fare analisi ma questo bisogno di ascolto va accolto ma soprattutto amato”.

Impegnati in prima linea nell’offrire piattaforme di dialogo e di pacificazione, ci sono soprattutto i leader delle comunità religiose, consapevoli che “se la chiamata all’unità e alla pace viene fatta insieme, ha più presa sull’opinione pubblica”. E così, all’indomani dell’attacco a Southport, si sono dati appuntamento l’imam Ahmed Ali, il vescovo cattolico ausiliare della diocesi di Liverpool, mons. Tom Neylon, Barry Levene, presidente del Merseyside Jewish Representative Council, e il vescovo anglicano John Perumbalath. “Siamo lanciando un appello all’unità, alla tolleranza e al rispetto, per rendere questo paese un posto sicuro in cui vivere”, dice l’imam. Mentre il vescovo cattolico invita tutti a pensare oggi “prima di tutto, alle famiglie coinvolte e a coloro che sono in lutto e a rispettare la privacy e l’aiuto di cui hanno bisogno in questo momento. Ci sono altri modi di risolvere i problemi e parlare di questioni su cui potremmo non essere d’accordo. Usiamo questi metodi per portare la pace e la guarigione di cui abbiamo bisogno in questo momento”. “Dopo quello che è successo a Southport e i terribili eventi successivi, ci uniamo in solidarietà per dire che la pace è la via da seguire”, afferma il rappresentante della comunità ebraica. E il vescovo anglicano, di origine indiana, conclude: “Nel mezzo di questa tragedia, mentre proviamo dolore, lutto e rabbia, ciò di cui abbiamo bisogno è che l’intera comunità si unisca. Dobbiamo essere veramente umani, esserci gli uni per gli altri”.

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