La storia di Oksana, moglie di un prigioniero. Torture, stupri e l’agonia di essere bruciato vivo. “Non è una guerra. È un genocidio”
(da Kyiv) “Ogni giorno che i nostri cari passano in prigione, può essere l’ultimo della loro vita”. È un racconto degli orrori quello di Oksana Stomina, scrittrice di Mariupol, autrice del libro “Lettere non spedite” edito in lingua italiana e ucraina, grazie alla traduzione di Marina Sorina. L’incontro con lei si svolge in un albergo di Kyiv, senza elettricità, nell’ambito dell’iniziativa di pace del Mean, il Movimento Europeo di Azione nonviolenta. Oksana ha trasformato il dolore in missione. Le lettere raccolte nel libro sono indirizzate al marito. Non lo vede dal 16 marzo 2022. Di professione faceva il portuale. Quando sono arrivati i russi, si è arruolato volontario nell’’esercito. Da allora di lui non sa più nulla. E’ stato preso, processato ingiustamente, messo in prigione. “Non sa che in questi due anni i suoi genitori sono morti e non sa che io e mia figlia stiamo bene. Niente”. 2.500 persone sono uscite dalla fabbrica dell’Azovstal. Di queste 1.900 sono ancora in prigione. “180 sono stati restituiti cadaveri. Erano entrati vivi. Sono usciti morti”.
Oksana è una donna delicata, biondina, occhi azzurri. Non ha paura delle parole che pronuncia. La lista degli “orrori” subiti dai prigionieri è lunghissima, oltre ogni immaginazione. Chi è tornato a casa, ha raccontato le torture subite. Stupri su uomini. Scosse elettriche. Anziani obbligati a fare 200 flessioni per poi accasciarsi privi di vita per infarto. Regime di semi fame per mesi e poi costretti a mangiare tantissimo. C’è chi è stato obbligato a rimanere in piedi tutto il giorno senza muoversi in cella fino a sera. Chi riesce a tornare a casa, ha perso mediamente 40 chili”. Oksana racconta quanto è avvenuto in una colonia penale tra Mariupol e Donetsk dove i prigionieri venivano messi in una baracca e bruciati vivi mentre tutti gli altri assistevano fuori alla lenta agonia dei loro amici. “Non è una guerra tra l’Ucraina e la Russia. Questa è la guerra tra il bene e il male”.
“Sono grata per la vostra presenza qui a Kyiv”, dice la donna rivolgendosi ai 100 attivisti giunti dall’Italia per il progetto “Mean”. “Questo ci fa capire che siete persone che hanno fatto la scelta di non rimanere indifferenti rispetto a quanto accade in guerra”. Oksana, a Mariupol, faceva parte del gruppo dei volontari che portava da mangiare alle persone rifugiate sotto il teatro della città. “Ce n’erano dentro 1.200. Sono tutte morte. Quel giorno i russi hanno bombardato a tappeto la città. La gente è morta sotto nei rifugi. Le notizie filtrate dai media sul numero dei morti vanno moltiplicati almeno per 10. Nel caso di Mariupol, almeno per 100”. Entrati in città, i russi hanno portato solo due cose: dei maxischermo e dei forni crematori mobili. “Raccoglievano i cadaveri per farli sparire e montavano gli schermi per dire che erano venuti a liberare la popolazione russa”. I racconti non si fermano. C’è la storia di una donna anziana bruciata viva in casa. Ci sono i soldati russi che si divertono a giocare sui carro armati e sparare all’impazzata. Oksana ha visto con i suoi stessi occhi soldati ceceni, imbracciare un fucile e divertirsi a sparare facendolo volteggiare per aria. “Non si tratta di una guerra di occupazione. Quello che stanno facendo qui i russi, è un vero e proprio genocidio, volto a cancellare la popolazione ucraina e sterminarla”.
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