Uno sguardo oltre confine
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Newsletter del 9 LUGLIO 2024
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Si sa davvero poco delle condizioni di salute di Vladimir Kara-Murza, il dissidente russo condannato a 25 anni per tradimento, rinchiuso in una colonia penale di massima sicurezza nella regione siberiana di Omsk e recentemente trasferito in un ospedale carcerario per motivi di salute. Non è stato concesso ai suoi legali di incontrarlo, né alla moglie Evgenia, che lancia un allarme sulla sorte dell’attivista di 42 anni, che sembra ripercorrere in modo inquietante le tappe che, prima di lui, ha vissuto Alexei Navalny, morto in stato di detenzione lo scorso febbraio in circostanze per nulla chiarite da Mosca.
Kara-Murza è da diversi anni uno dei principali oppositori di Vladimir Putin ed è uno di quelli che ha condotto la sua campagna, rimanendo sempre dentro il territorio russo, criticando il regime, contestando l’invasione dell’Ucraina, sfidando le diverse leggi anti-dissenso varate da Mosca. E’ stato arrestato nell’aprile 2022, condannato nell’aprile 2023 a 25 anni, una delle sanzioni più dure inflitte dal regime a un oppositore politico. Diventato famoso anche per gli editoriali dal carcere scritti sul Washington Post, Vladimir Kara-Murza ha vinto quest’anno il Premio Pulitzer.
In questi due anni di detenzione in condizioni durissime, si è temuto ogni giorno per la sua salute, già compromessa da una polineuropatia, una malattia nervosa che riduce la sensibilità agli arti, che secondo la sua denuncia (confermata da un’indagine giornalistica di Bellingcat) è stata causata da un doppio tentativo di avvelenamento quasi fatale – nel 2015 e nel 2017 – orchestrato dall’intelligence russa dell’Fsb. I legali che lo hanno visitato in passato non hanno notato specifici problemi di salute, ma “c’è una prescrizione, c’è un farmaco che avrebbero dovuto somministrare, e quando l’avvocato l’ha portato alla colonia, gli hanno detto che non avevano l’attrezzatura per somministrarli” per via endovenosa come prescritto, racconta la moglie, aggiungendo che finché è stato in custodia cautelare a Mosca ha ricevuto le cure che invece a Omsk gli vengono negate.
La moglie Evgenia ha riferito all’Associated Press che la ragione del trasferimento in ospedale del marito addotta dai funzionari del carcere è un “esame” non specificato. “Non abbiamo alcuna informazione sullo stato in cui si trova Volodya e cosa stia realmente accadendo” ha detto Evgenia, secondo cui “purtroppo non sapremo nulla fino alla prossima settimana, perché durante il weekend l’intero sistema penitenziario russo chiude”.
A temere per la sorte di Kara-Murza è la comunità degli oppositori di Putin, che un mese fa si è riunita a Vilnius per il decimo forum annuale, alla presenza di Yulia Navalnaya, dell’oligarca russo in esilio Mikhail Khodorkovsky e di Gennady Gudkov, già avvocato di Alexei Navalny e Vladimir Kara-Murza. Dopo la morte di Navalny, in una lettera consegnata ai suoi avvocati, era stato un altro oppositore attualmente in prigione, Ilya Yashin, a dirsi particolarmente preoccupato per la vita di Kara-Murza.
La repressione di Mosca nei confronti degli oppositori si è intensificata dopo l’inizio della guerra in Ucraina. Attraverso la legge che vieta di diffondere falsi informazioni o di screditare l’esercito russo, il regime ha comminato pene detentive pesanti nei confronti di attivisti per i diritti umani e cittadini russi critici nei confronti del Cremlino. Il monitoraggio di Ovd-Info, indica che oltre 20mila russi sono stati arrestati dall’invasione in Ucraina, il 24 febbraio 2022, al 20 maggio 2024. Circa mille persone hanno dovuto affrontare accuse penali per essersi schierate contro la guerra. Quasi 9.500 persone hanno subito piccole accuse, che hanno portato a brevi periodi di detenzione o al pagamento di una multa. Ad esempio, di recente, l’accusa ha chiesto una condanna a sei anni per la regista teatrale Zhenya Berkovich e la drammaturga Svetlana Petriychuk, già dietro le sbarre da oltre un anno, accusati di incitare il terrorismo in un’opera teatrale pluripremiata che racconta di una donna russa che si innamora online, va in Siria e poi affronta un processo con l’accusa di terrorismo al suo ritorno in Russia.
E’ solo uno dei tanti casi alla base dell’iceberg, alla cui punta c’è Vladimir Kara-Murza, che riportano l’attenzione sulle durissime condizioni di detenzione in Russia. I dati ufficiali indicano fra 1.400 e 2.000 morti in carcere ogni anno, spesso con la causa (piuttosto vaga) dell’arresto cardiaco. I prigionieri per ragioni politiche o religiose – che alcune ong stimano tra 700 e 1.000 unità – sono solitamente ospitati nelle carceri di massima sicurezza, spesso costruite nei luoghi più inospitali della Federazione russa, gelidi d’inverno e caldi d’estate, quei luoghi in cui il regime sovietico aveva messo i campi di lavoro forzato, quei gulag che sono diventati tristemente famosi e sono stati raccontati da Aleksandr Solženicyn in opere straordinarie come Una giornata di Ivan Denisovič e Arcipelago Gulag. Una punizione brutale, un isolamento dal mondo, un metodo per fiaccare progressivamente la resistenza del detenuto attraverso forme di violenza fisica e psicologica, la solitudine, la privazione di cibo, di sonno, di assistenza medica. Alexei Navalny ha descritto la sua cella come una stanza di due metri e mezzo per tre, con muri di cemento e una piccola finestrella, senza alcun arredo, un buco nel pavimento come bagno. Evgenia Kara-Murza ha raccontato invece che nella cella di Vladimir un giorno venne messo un piccolo armadio, che riduceva lo spazio ed era tanto inutile in quanto a molti prigionieri politici è consentito il possesso di pochissimi oggetti, come uno spazzolino o una tazza. L’isolamento è la condizione peggiore: per la legge russa non può superare i 15 giorni consecutivi, ma Navalny l’ha vissuto 27 volte nei 1.126 giorni in cui è stato detenuto. Il trattamento Navalny è quello che viene adottato per la distruzione progressiva e inesorabile del corpo e della psiche del condannato. Una situazione che, secondo Evgenia e gli avvocati, sta vivendo anche Vladimir Kara-Murza.
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Dal voto Onu che ha riconosciuto il genocidio di Srebrenica, il 23 maggio, il processo è stato accelerato. Venerdì 7 giugno Milorad Dodik, leader dei serbo-bosniaci, appena tornato dal Forum Spief di San Pietroburgo, annunciava la volontà di indire un referendum sull’indipendenza della Republika Srpska dalla Bosnia-Erzegovina, immaginando un processo pacifico, senza tuttavia indicare una data del voto.
Sabato 8 giugno a Belgrado si teneva la prima Assemblea pan-serba tra i rappresentanti di Serbia e Republika Srpska – l’entità dei serbi di Bosnia – con uno slogan (“un popolo, un raduno”), due promotori (il presidente serbo Aleksandar Vučić oltre a Milorad Dodik) e un grande protettore (la Federazione russa). L’Assemblea produceva una “Dichiarazione sulla difesa dei diritti nazionali e politici e sul futuro comune del popolo serbo”, in 49 punti, che richiamava esplicitamente all’unità del popolo serbo nella regione, in Europa e nel mondo. In questa occasione venivano siglati accordi bilaterali di collaborazione in vari campi – economia, sanità, cultura, trasporti, ricerca, giustizia, sport.
Sempre sabato 8 giugno, a Belgrado sfilava il corteo, tra canzoni patriottiche, danze popolari, preghiere ortodosse, bandiere e striscioni, per dire che “non esiste un serbo della Serbia o un serbo della Bosnia-Erzegovina. Un serbo è un serbo”.
E ancora: il 2 luglio, Dodik ha presentato un documento ufficiale, con i punti salienti del progetto di “dissociazione pacifica” della Republika Srpska dalla Bosnia, mentre in serata il Parlamento della Republika Srprska ha approvato con la maggioranza dei due terzi la “Dichiarazione”, che sarà presto approvata anche dal Parlamento della Serbia.
La storia di Milorad Dodik è quella di un pessimo investimento dell’Occidente su un cavallo sbagliato: se per oltre un decennio, nei suoi ripetuti mandati da primo ministro, presidente e rappresentante serbo della presidenza tripartita di Bosnia, è stato allineato e fedele ai patti internazionali, gli ultimi anni raccontano di una virata che lo ha reso un nazionalista intransigente, un secessionista, elementi che, insieme alle accuse di corruzione, hanno compromesso il rapporto con Ue e Usa, spostando l’asse dei serbo-bosniaci non solo verso Belgrado, ma anche verso la Russia di Vladimir Putin, l’Ungheria di Viktor Orbán, la Cina di Xi Jinping.
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NESSUNA PIETÀ PER PELTIER
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Leonard Peltier è in carcere dal 1977 con la condanna a due ergastoli per aver ucciso due agenti dell’Fbi durante alcuni disordini tra nativi, civili americani e agenti all’interno della Riserva Indiana di Pine Ridge. Il detenuto, un attivista dell’American Indian Movement ormai prossimo agli 80 anni e in precario stato di salute, si è sempre dichiarato innocente. “Non ho ucciso quegli agenti, non ho visto chi ha ucciso quegli agenti, e se lo sapessi, non lo direi. Ma non lo so. Questo è il punto”, ha detto Peltier al corrispondente della CNN Mark Potter nel 1999.
Nei giorni scorsi la sua richiesta di libertà vigilata è stata nuovamente respinta (come nel 2009) dalla Commissione federale statunitense, che ha fissato una nuova udienza nel giugno 2026. Troppo tardi, secondo i legali, che denunciano le condizioni fisiche dell’uomo. Amnesty International, che segue il caso dall’inizio, denuncia una chiara violazione dei diritti umani fondamentali nei confronti di un uomo anziano e infermo. “Nessuno dovrebbe essere imprigionato a seguito di un processo segnato da incertezze sulla sua correttezza. Chiediamo ancora una volta al presidente Biden di concedere la grazia a Peltier per motivi umanitari. È una questione di umanità e giustizia”.
I fatti che portarono all’arresto di Peltier risalgono al 26 giugno 1975: quel giorno una comunità di nativi della riserva di Pine Ridge, nel Dakota del Sud, chiese l’intervento dell’American Indian Movement a seguito di tensioni fra agenti dell’Fbi e gruppi armati civili. Peltier era tra i 17 attivisti che entrarono. Due agenti dell’Fbi in borghese si stavano aggirando nella riserva a bordo di veicoli non contrassegnati alla ricerca di un ragazzo accusato di furto. Per motivi mai chiariti, si innescò una sparatoria: a morire furono i due agenti speciali Ronald A. Williams e Jack R. Coler, di 27 e 28 anni, e un attivista. L’unico condannato per l’accaduto fu Peltier. Una testimone chiave al processo affermò di aver visto Peltier sparare, in un secondo momento ritrattò e modificò la sua testimonianza, in un terzo momento (nel 2000) dichiarò che le sue dichiarazioni messe agli atti erano state frutto di minacce e intimidazioni da parte di agenti federali. Non servì a nulla, come a nulla servirono perizie balistiche della difesa che non vengono accettate al processo. Nonostante la Commissione Federale per la libertà vigilata abbia in più occasioni riconosciuto l’assenza di prove concrete che colleghino Peltier agli omicidi, la scarcerazione gli è sempre stata negata.
Negli anni gli avvocati del detenuto hanno richiesto la grazia a Barack Obama nel 2016, e a Joe Biden nel 2021, invano. Resta ancora aperta la speranza che il presidente a fine mandato, come da tradizione, possa concedere alcune grazie e che Leonard Peltier possa essere incluso.
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Un bacio appassionato e una dichiarazione d’amore: “Sono pazza di te e voglio che il mondo lo sappia”. Crea scompiglio in Camerun il post su Instagram di Brenda Biya, 26 anni, figlia dell’ultranovantenne presidente Paul Biya, che abbracciata alla modella brasiliana Layyons Valença.
Nel suo paese, infatti, le relazioni omosessuali sono illegali, chiunque intrattenga relazioni o atti omosessuali rischia fino a cinque anni di carcere.
Musicista, conosciuta come King Nasty, Brenda Biya risiede all’estero. Gli attivisti per i diritti lgbtq+ applaudono, auspicando una svolta per la comunità, ma sono moltissimi gli utenti dei social in Camerun che hanno reagito al post con commenti omofobi. Né il governo, né lo stesso presidente Biya hanno rilasciato dichiarazioni ufficiali sulla vicenda.
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Dopo due settimane di agonia, Aidos Sadykov è morto in un ospedale di Kiev. L’oppositore kazako, seguito da un milione di iscritti sul suo canale YouTube, lo scorso 18 giugno era stato gravemente ferito da un colpo di pistola alla testa in un attentato a pochi passi dalla sua abitazione nella capitale dell’Ucraina – dove beneficiava del diritto d’asilo dal 2014.
A dare la notizia è la moglie, Natalia Sadykova, scrivendo sui social che “il mio amato marito, il padre dei nostri tre figli, un grande figlio del popolo kazako, Aidos, ha dato la vita per il Kazakistan. Per tredici giorni ha combattuto, ma il miracolo non è avvenuto”. Da subito Natalia ha accusato il presidente kazako Kassym-Jomart Tokayev di essere il mandante dell’attentato. Oggi dice che la morte di Aidos “pesa sulla coscienza di Tokayev”.
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