Elezioni europee. Mons. Hérouard (Francia): “Ad un’Europa nella morsa della paura risuoni un messaggio di speranza”
“Oggi c’è molta paura e ansia ed è quello che è emerso nel voto europeo. Per questo, i cristiani sono chiamati ad essere portatori di speranza. In un mondo in cui molte persone sono pessimiste e tristi perché non vedono vie d’uscita ai problemi, noi dobbiamo essere uomini e donne di speranza, non per dire che va tutto bene e che niente è grave, ma per dire che esiste uno sguardo più ampio”.
È mons. Antoine Hérouard, arcivescovo di Digione e vicepresidente della Commissione degli episcopati dell’Unione europea (Comece), ad analizzare il voto europeo e le conseguenze che ha avuto nel suo Paese con la vittoria schiacciante dei partiti di destra e la decisione del presidente Macron di sciogliere l’Assemblea Nazionale e andare ad elezioni anticipate. Lo abbiamo intervistato a Roma, dove insieme alla presidenza della Comece sta partecipando ad una serie di incontri in Vaticano e con papa Francesco. “I risultati delle elezioni europee in Francia – dice subito – purtroppo non sono stati una sorpresa. Sono stati annunciati da tutti i sondaggi approssimativamente in questa proporzione”. “Credo siano il segno di un profondo disagio. Sebbene siano state fortemente centrate sulle questioni nazionali, c’è stato indubbiamente anche un giudizio abbastanza negativo nei confronti dell’Unione europea vista come un’entità distante, che si fatica a capire, troppo tecnocratica, che si concentra su molti dettagli ma non fornisce alle persone ciò che pensano di dover ricevere”.
Ma era proprio necessario andare ad elezioni anticipate?
Molti hanno criticato questa decisione dicendo che in questo modo il presidente ha messo il Paese in una situazione molto difficile. Ci stiamo avviando verso il periodo estivo e soprattutto verso i Giochi Olimpici di Parigi, che sono un appuntamento molto importante per il Paese. La scadenza inoltre è molto breve. Il termine è ovviamente previsto dalla Costituzione ma i partiti hanno poco tempo per definire il programma, scegliere il candidato. Insomma, si ha l’impressione che sia tutto un po’ affrettato e che le persone siano un po’ perse. Allo stesso tempo, va detto che dopo la sua rielezione nel 2022, il presidente Macron ha avuto una crescente difficoltà a governare il Paese, a causa del fatto che non esisteva una maggioranza assoluta nell’Assemblea Nazionale. Il governo ha dovuto così fare un ricorso massiccio all’articolo 49, comma 3 della Costituzione che consente al governo di approvare un testo anche se non ha la maggioranza. Ciò è avvenuto anche per le votazioni sul bilancio e poi per un certo numero di leggi emblematiche come la riforma delle pensioni. Il presidente ha dunque pensato che era meglio prendere l’iniziativa e avviare il processo per le elezioni legislative.
Questa situazione in Francia, l’abbiamo vista anche in altri Paesi d’Europa, vale a dire la vittoria dei partiti populisti o di estrema destra. Come legge questo dato dal punto di vista europeo?
Penso che la lettura a livello europeo sia più sfumata. Questa vittoria dei partiti di estrema destra è vera ma si è registrata in alcuni Paesi e non è così diffusa. Anzi, in alcuni Paesi abbiamo assistito addirittura ad un calo. Si è però creata una situazione alquanto paradossale: i Paesi in cui questi partiti di estrema destra o populisti hanno ottenuto il loro miglior risultato sono i Paesi fondatori dell’Unione europea. Penso ovviamente alla Francia. Ma penso anche alla Germania, al Belgio e anche all’Italia con il partito del presidente Meloni. Al contrario, nei Paesi dell’Est europeo, che in passato sono stati sensibili ai partiti di destra, si è registrato una sorta di riflusso. Anche in Ungheria dove Orban resta in testa ma il suo partito ha perso quasi 20 punti. O in Slovacchia dove il premier – nonostante l’attentato di cui è stato vittima, che avrebbe potuto portare un certo numero di elettori a sostenerlo – ha perso nei confronti di partiti più europei. E la stessa cosa in Romania. Sono Paesi arrivati nell’Unione recentemente e si trovano più vicini all’Ucraina e alla guerra russa in Ucraina. L’Unione europea è evidentemente vista come fattore di protezione del loro futuro.
Alla luce di questi risultati, quali sono le sfide che il Parlamento europeo dovrà affrontare?
Anche se alla fine i principali equilibri del Parlamento europeo non cambieranno, occorre assolutamente mettersi in ascolto del messaggio che è emerso dagli elettori e soprattutto dalla parte più critica, da chi non ha più chiaro quanto sia importante l’Unione europea e come influisce concretamente sulla vita delle persone. L’Europa inoltre si confronta sempre più spesso e in maniera determinante con il resto del mondo. Penso alle questioni economiche, commerciali e di competizione rispetto ai grandi Paesi leader come Stati Uniti e Cina. Penso alle questioni di difesa e al tema importante e molto delicato della migrazione. Sta emergendo la percezione del fatto che le soluzioni non debbano essere cercate solo sul piano nazionale ma che spesso richiedano un livello europeo. Questa percezione sta progredendo e penso che sia una buona cosa.
E le Chiese, che ruolo hanno?
La Chiesa è impegnata nella costruzione europea e lo è sempre stata, fin dall’inizio. È un progetto al quale aderiamo. Ci crediamo e soprattutto perché è innanzitutto un progetto di pace. Non dobbiamo dimenticare che l’Unione europea è nata dalla riconciliazione franco-tedesca alla fine della Seconda guerra mondiale affinché i conflitti non possano essere risolti con la guerra. È ancora questo il ruolo principale dell’Unione europea, in un momento in cui oggi i conflitti sono purtroppo alle nostre porte con la guerra in Ucraina e, in un certo senso, con la guerra in Israele e a Gaza. Crescono le tensioni e le divisioni. Le nostre società sono attraversate da discorsi di odio, di incomprensione, di giudizio definitivo sugli uni sugli altri. I cristiani dovranno sempre più dare prova di essere persone capaci di dialogare anche laddove non si hanno le stesse opinione, costruttori di ponti che accolgono e non rifiutano, artigiani di pace.
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