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Attualità

Sandokan, un flop la collaborazione dopo 3 mesi

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Sandokan, un flop la collaborazione dopo 3 mesi

Rischia di non andare in aula come collaboratore di giustizia. Rischia la fine del programma di protezione in vista di premi e benefici destinati a chi decide di schierarsi con lo Stato nel corso dei processi di antimafia. Rischia infine di rimanere sepolto dagli ergastoli, come ex capo della camorra dei casalesi. Senza un premio, senza un beneficio. Destino beffardo per Francesco “Sandokan” Schiavone, uno dei capi fondatori del direttorio nato all’indomani dell’omicidio di Antonio Bardellino, un superclan che per anni ha condizionato sviluppo ed economia nell’intera regione campana.

In sintesi, dopo i primi tre mesi di collaborazione con la giustizia, il racconto messo agli atti dall’ormai ex capoclan non sembra aver fornito contributi concreti. Una sorta di valutazione di medio termine, rispetto ai sei mesi concessi dallo Stato per chi decide di voltare le spalle alla mafia, che ha spinto gli inquirenti a fare una valutazione rigorosa, draconiana: così come stanno le cose, risulta difficile portare Francesco Schiavone in un’aula di giustizia, nel corso dei processi a carico di presunti colletti bianchi in odore di mafia o di presunti killer sanguinari.

Da quanto trapelato finora, in questi novanta giorni da pentito, l’ex boss dei casalesi ha fornito dichiarazioni poco efficaci. Mancherebbero i requisiti della attualità e della novità. Due aspetti decisivi per chi si affaccia alla svolta collaborativa dopo aver rappresentato per anni – anche con una buona dose di orgoglio – una sorta di polo negativo, una forma di antistato in guerra con le istituzioni democratiche.

Nato a marzo del 1970, cresciuto sotto il profilo criminale all’indomani dell’omicidio di Bardellino (capo della Nuova famiglia che sarebbe stato ucciso in Brasile) e dell’alleato Mario Iovine (ucciso dai rivali dei casalesi a Cascais all’inizio degli anni Novanta), Schiavone è stato arrestato a luglio del 1998. Da allora, è stato processato e condannato all’ergasto diverse volte, sempre come mandante e organizzatore di omicidi, oltre ad essere indicato – nella ormai famosa sentenza Spartacus – come uno dei più potenti boss della camorra campana.

Conosciuto come «Sandokan» per quella barba che gli incorniciava il viso, Francesco Schiavone è stato spesso protagonista nel corso delle udienze che lo hanno visto imputato numero uno. Durante il processo in assise appello chiese di lasciare l’aula, rifiutandosi di partecipare all’udienza in videoconferenza, di fronte ai tanti giornalisti accorsi per assistere alle fasi clou del processo.

Disse al microfono: «Preferisco interrompere questo spettacolo, non sono una bestia da fiera…».

A marzo la sua decisione di collaborare con la giustizia. In pochi mesi ha rilasciato diversi interrogatori, grazie al lavoro condotto dal pool di magistrati della Dda di Napoli coordinato dal procuratore aggiunto Michele Del Prete e ovviamente del procuratore di Napoli Nicola Gratteri. Per mesi, la scelta del boss pentito è stata coltivata e valorizzata con dedizione e riservatezza da parte dei pm della Procura partenopea, ma gli esiti non sono stati all’altezza delle aspettative.

Il nome di Francesco Schiavone era stato inserito nella lista dei testi di accusa a carico di alcuni imprenditori imputati per la gestione delle commesse all’ombra della Rfi. Un processo seguito dal pm Graziella Arlomede (e, nella fase genetica, dal pm Antonello Ardituro, oggi alla Dna) nel quale l’esame di Francesco Schiavone era atteso a settembre.

Oggi, però, la sua collaborazione è messa seriamente in discussione. Se dovesse arrivare il no definitivo all’aspirante pentito, Schiavone sarebbe tradotto in una cella di isolamento (al riparo comunque da possibili vendette), ma al di fuori del circuito premiale riservato a chi acquisisce lo status di collaboratore di giustizia.

Intanto, nella sua Casal di Principe regna un certo disordine. Pochi giorni fa, è stato arrestato Emanuele Libero Schiavone, uno dei figli dell’ex boss, perché pronto a farsi giustizia da solo dopo aver subìto dei colpi di pistola contro la sua abitazione. Era in corso una vendetta, quanto basta a spingere i pm a firmare un decreto di fermo. Blitz chirurgico e tempestivo, per impedire una nuova faida a Casal di Principe, mentre nel chiuso di una sala colloqui si stava consumando una sorta di dramma giudiziario: quello del boss pronto a dire parole di cui lo Stato italiano non sa che farsene.

FONTE:

(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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