Obbrobrio /Infamia, vergogna; ingiuria, offesa; schifo/ ‘ignominia, oltraggio’/
Obbrobrio
ob-brò-brio
SIGNIFICATO Infamia, vergogna; ingiuria, offesa; schifo, così brutto che offende il senso estetico
ETIMOLOGIA voce dotta recuperata dal latino oppròbrium ‘ignominia, oltraggio’, derivato di opprobrare ‘rimproverare’, che attraverso una voce ipotetica ricostruita come probrare, deriva da probrum ‘azione vergognosa, infamia’.
- «Ma l’hai sentito? È un obbrobrio.»
(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)
La torta che in forno non è cresciuta, e la cui farcitura è colata fuori. Il libretto spaginato con le poesie della zia, così particolari. La riparazione che è un accrocco congegnato male e realizzata in maniera raccapricciante.
Nei nostri discorsi un obbrobrio è prossimo a uno schifo. Può contare su una sonorità che nella ripetizione scura unisce il balbettio al conato, e che ci dipinge in volto una smorfia. Peraltro questa voluttà di ripugnanza è evidente anche nella ricchezza praticamente completa di varianti che si sono avvicendate in passato, con tutte le possibili combinazioni di obproprio, obrobio, obbrobbrio e via dicendo. Però le cose sarebbero più complesse di così, e il perno dell’obbrobrio sarebbe la vergogna, l’infamia.
Si tratta di un prestito dal latino preso nel Duecento, in particolare dal termine opprobrium — un termine con delicati significati che si aggroppano in infamia, onta, oltraggio, ingiuria, vergogna. Però a vederla è una parola che non ci dice molto: i pezzi che la compongono sono piuttosto criptici, anche se non alieni.
Infatti il verbo opprobrare (diciamo subito che l’ob- qui è intensivo) è un derivato del non attestato probrare, che a sua volta deriva da probrum, l’azione vergognosa e il rimprovero: questo è lo stipite da cui si dirama proprio la pianta del ‘rimprovero’, che conosciamo tanto bene.
Concludiamo la mappatura etimologica con questo probrum, che è a sua volta poco perspicuo: se ne ricostruisce una forma precedente come pro-bher-os, alla lettera ‘messo davanti’, e possiamo riconoscerci, oltre al pro- che ci indica il ‘davanti’, anche la radice di fero ‘portare’. Questo ‘messo davanti’ non è che un imputato — e di qui, dal groviglio di infamia acclarata o creduta, e vergogna pubblica, e disonore, e tutte le declinazioni successive.
Certo: atti turpi calano nell’abiezione e nel disprezzo, così come le persone malvolute. Questa condizione è il primo obbrobrio. Un’ignominia radicale, profondamente disonorata. Posso parlare dell’obbrobrio di un centro cittadino derelitto, snaturato e svilito; posso considerare l’obbrobrio di una persona che ha tentato un atto da furfante e ne è rimasta travolta; dopo un esito sciagurato, posso paventare il dolore e l’obbrobrio. Ma l’infamia non è solo una condizione, è anche l’atto che la genera — e ad esempio posso parlare degli obbrobri compiuti dalla discendenza di una persona stimata, o di certi obbrobri per una località è famigerata.
Tutta questa pesantezza — che riconosciamo anche in certi usi ricercati che continuano questo obbrobrio-infamia nell’ingiuria, nell’insulto — si stempera un po’ nell’uso comune. L’obbrobrio non è più un abisso di abiezione, o meglio lo è, ma come disfemismo, come esagerazione negativa. Principalmente, l’obbrobrio offende l’estetica.
Il regista che amiamo ha fatto un obbrobrio che difendiamo a spada tratta (il maestro non viene capito dai profani, e se un suo film non ci piace forse nemmeno noi lo capiamo), sui viali il colosso societario erige un titanico obbrobrio per il turismo di lusso, e mi presento al matrimonio con un vestito che è un vero obbrobrio. Da imputato a infamia, da infamia (condizione e atto infame) a vergogna, ingiuria e schifo. Il modo in cui le stanze dell’obbrobrio comunicano ci fa capire quanto a lungo e intensamente, con quanto pensiero e con quanto piacere questa parola sia stata abitata. In effetti, ha una capacità evocativa superba e simpatica — che non pencola troppo nel serio come l’abominio e l’oscenità. Forse proprio per la sua svolta estetica sa avere un grano di leggerezza, di ironia. Magari anche di autoironia.