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Comunità terapeutiche. Squillaci: “Ritrovare il senso di quello che facciamo e ricostruire alleanze”

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“Dobbiamo interrogarci di più per allargare la conoscenza dei problemi e far appassionare alla sfida che essi rappresentano, sfida che non appartiene solo a coloro che ne sono coinvolti ma a tutti, perché vuol dire lottare contro una mentalità di dipendenza, quella che la produce, che si accontenta di circoscriverla e non di risolverla. È anche una domanda su cui tutta la Chiesa in Italia si deve interrogare per ritrovare attenzione, passione, gusto di curare tanti pezzi del nostro mondo, delle nostre comunità che dobbiamo affrancare dalle tante schiavitù”. Lo ha detto il card. Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, collegato via Zoom al convegno promosso dalla Federazione italiana comunità terapeutiche (Fict) a Bologna su “La presa in carico delle fragilità tra il senso e il fare”. “Dovete aiutarci ancora di più a fare cultura, a far conoscere le sofferenze che portano le dipendenze e anche le tante possibilità di liberazione, che non richiedono solo delle bellissime comunità come sono le vostre, ma che chiedono che tutta la comunità sia attenta, consapevole, responsabile e vi aiuti in questo sforzo, che non può essere mai solo una delega, ma un coinvolgimento di tutti”, ha aggiunto il cardinale invitando a presentare anche delle intese per le diocesi. Abbiamo sentito Luciano Squillaci, presidente della Fict, per fare un’analisi del sistema attuale e le prospettive per il futuro.

(Foto Fict)

Qual è lo scenario attuale in cui si muovono le comunità terapeutiche?

Il convegno “La presa in carico delle fragilità tra il senso e il fare” si pone al termine di una due giorni che abbiamo vissuto a Bologna insieme a presidenti e direttori di diversi Centri di solidarietà della Federazione italiana comunità terapeutiche sparse in tutta Italia, un centinaio di persone delegate dei vari Centri. Si è posto alla fine questo incontro assieme al sociologo Andrea Volterrani e al card. Matteo Zuppi perché volevamo capire in che termini riusciamo a svolgere in questo momento e soprattutto in prospettiva futura la nostra responsabilità politica e culturale. Abbiamo preso in considerazione il rischio che stiamo attraversando noi e la gran parte del Terzo Settore, ma soprattutto noi nell’ambito delle dipendenze, ambito estremamente complesso dove interagiscono fattori sanitari, sociali, familiari, di contesto, giuridici. L’interrogativo è stato: all’interno di questa complessità, come possiamo evitare di farci schiacciare sul fare e quindi sui servizi, che sono sempre più difficili, complicati, dove si fa una fatica enorme per tantissimi motivi, dove c’è una frammentazione forte, continuando invece a svolgere anche un ruolo culturale di cambiamento all’interno delle comunità? Cioè come passare sostanzialmente dalla comunità terapeutica alla comunità territoriale, come svolgere il proprio ruolo in maniera adeguata sul territorio? Gli enti del Terzo Settore svolgono da sempre questo ruolo, noi come Federazione abbiamo centri fortemente radicati nel mondo ecclesiale, sociale e nei territori, ma il rischio è che questa enorme complessità in qualche modo ci porti a dimenticare che

il nostro obiettivo principale non è lavorare sugli effetti, ma andare alle cause del problema, del disagio, dell’abbandono, dell’emarginazione.

(Foto ANSA/SIR)

Come interpretare oggi questa mission?

È un ruolo politico e noi riteniamo che questa dimensione politica la possiamo mantenere e probabilmente implementare solo se terremo fede a due percorsi: il primo è

ritrovare il senso di quello che facciamo

e quindi tornare a ragionare non solo sull’essere bravi metodologicamente e scientificamente – quello è indispensabile -, ma anche sul lato più valoriale, dei riferimenti, tant’è che noi abbiamo rinnovato con queste due giorni la nostra carta dei valori della Federazione proprio perché abbiamo bisogno di aggrapparci al senso di quello che facciamo, per evitare che siamo solo un fare, senza che abbiamo dietro un significato. Quindi, tutti i valori, tipo la centralità della persona, il rispetto per la vita, la scelta degli ultimi sono nella carta dei valori.

Il secondo passaggio per svolgere il ruolo politico è rappresentato dalle alleanze,

ricordarsi che abbiamo la responsabilità del cambiamento ma non possiamo cambiare le cose da soli. In questo il card. Zuppi molto concretamente ha ribadito l’esigenza che soprattutto a livello territoriale si rinnovi con forza la capacità di lavorare insieme tra comunità territoriali, parrocchie, associazioni, gruppi come i nostri, insomma che ci sia una condivisione reale e concreta di intenti. Rispetto a questo il cardinale ha ribadito di poter strutturare dei percorsi anche di alleanze e di intese che siano buone prassi da esportare.

(Foto: ANSA/SIR)

Le dipendenze negli anni hanno subito evoluzioni?

Le dipendenze sono un problema enormemente diffuso e sempre di più tra l’altro con delle specifiche di genere, un aspetto, quest’ultimo, che deve essere approfondito. Mentre una volta tra i consumatori di sostanza c’era una maggioranza schiacciante di uomini, tanto che nel sistema dei servizi tra le persone che sono prese in carico solo il 14% è costituito da donne, oggi i dati ci dicono che le quindicenni e le sedicenni ormai hanno raggiunto e in alcuni casi superato i ragazzi coetanei nel consumo. Questo ci lascia immaginare che da qui a breve ci troveremo a fare i conti con tantissime donne che avranno necessità di supporto, sostegno e accompagnamento nell’ambito delle dipendenze, ma noi siamo pronti? Il nostro sistema è pronto ad affrontare le specificità di genere? La dipendenza di genere fino a oggi è stata poco approfondita e neanche in maniera adeguata. Noi abbiamo avviato alcune sperimentazioni di strutture ad hoc tutte al femminile, ad esempio a Mestre c’è un percorso ad hoc, nei prossimi anni è necessario che su questi aspetti soprattutto ci si lavori.

Il card. Zuppi ha anche parlato del fatto che il fenomeno delle dipendenze oggi sia abbastanza sottaciuto nella società…

Questo è abbastanza naturale all’interno del contesto che stiamo vivendo. Nell’ambito dei rapporti educativi tra genitori e figli, ad esempio, l’enorme paura che hanno i genitori nell’affrontare alcune questioni li porta a negarle, ma attenzione: questo non è amore, è egoismo da parte dei genitori, tante volte nascondiamo la testa come gli struzzi sotto la sabbia e preferiamo non vedere. È una società che va in questa direzione. Per quanto riguarda in modo particolare le dipendenze, questo ha portato a sempre più normalizzarle. C’è una sorta di normalizzazione:

paradossalmente l’enorme diffusione delle sostanze come mai prima sta producendo questo effetto collaterale di farla considerare un fatto normale, ma ciò è di una pericolosità estrema.

Adesso è scoppiata la polemica su Sniffy, venduta in Francia in tabaccheria, ma che c’è il rischio che arrivi anche in Italia, è una polverina con dentro caffeina, taurina e creatina, che fanno comunque male in grosse quantità e in ogni caso non vanno sniffate, è una modalità per rilanciare messaggi che sono assolutamente contro-educativi perché rimandano all’uso di cocaina. Trovo questo fatto di una gravità inaudita sotto il profilo educativo, è una di quelle questioni come la cannabis light che sono messaggi diseducativi che noi diamo ai ragazzi e che in qualche modo aiutano a naturalizzare l’uso di sostanze, a normalizzare l’eccesso.

(Foto ANSA/SIR)

Di fronte a tale crisi educativa che è sempre grave e ancor di più in questo ambito, che risposta può dare il nostro mondo?

Queste sono sfide che si possono vincere soltanto stando e lavorando nelle comunità territoriali, con la dovuta pazienza ma correndo il rischio della speranza, provando a far comprendere che non tutto è perduto, che è ancora possibile di invertire la tendenza purché ci sia un adeguato sostegno vicendevole ai diversi nodi della società: istituzioni, associazionismo, famiglie. Questo è il percorso da fare anche se è più difficile in un mondo che va esattamente al contrario, dove tutto deve essere veloce, efficiente, fare percorsi di questo genere che richiedono tempo e fatica non trova facile accoglienza, ma è il ragionamento che abbiamo fatto nella due giorni:

abbiamo la necessità di tornare nei territori, di ricostruire reti e alleanze e di muoverci di conseguenza.

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