Regno Unito: il caso di baby Elsa. Una lezione di coraggio, di speranza e di fiducia
Elsa non è solo il nome della regina di Arendelle nel film fantasy d’animazione Frozen, prodotto dalla Walt Disney. Elsa è anche il nome dato dai media e dalla polizia alla terza figlia di una madre e di un padre sconosciuti che hanno lasciato la neonata e, prima ancora, rispettivamente nel 2017 e nel 2019, la sua sorellina (Roman) e il suo fratellino (Harry), appena nati, nella stessa strada, a Newham, a est di Londra. È l’esame del Dna dei tre bambini che ha svelato la loro stretta familiarità.
“Baby Elsa” – come i suoi fratellini: il cordone ombelicale ancora attaccato, un asciugamano che avvolge accuratamente la neonata deposta all’interno di una borsa – è stata trovata da un passante che portava a spasso il cane. Come i suoi fratellini, data in adozione perché anche Elsa, Roman e Harry hanno comunque diritto ad avere un padre e una madre, a vivere nell’accoglienza di una famiglia. Il caso ha scosso e commosso l’opinione pubblica britannica, sciogliendo il “british aplomb” che notoriamente, almeno nella vulgata, caratterizza gli inglesi. Si tratta di una storia di “grande interesse collettivo”, è stato detto, scritto e ripetuto.
Accoglienza, dunque, e non indifferenza.
Il fatto è accaduto a gennaio, ma la notizia è stata diffusa in questi giorni, facendo il giro del mondo. La contagiosa commozione ha sollecitato la riflessione sui problemi familiari, sul disagio sociale, sulle disuguaglianze che affliggono il Paese e la capitale. C’è tuttavia in questa vicenda la spinta verso un livello più profondo di riflessione. Il fatto che “baby Elsa” sia stata fatta nascere è la prima cosa di cui gioire e su cui meditare. In Inghilterra infatti, l’aborto è legale dal 1967 ed è ormai, purtroppo, parte di un sistema sanitario e di una mentalità accettata indiscutibilmente. Se la mamma di Elsa avesse voluto abortire, non avrebbe trovato nessun impedimento. Invece, la mamma di Elsa, andando controcorrente, ha fatto un’altra scelta preferendo dare alla luce la sua bimba dopo averla cullata in seno per nove mesi, restando mamma fino in fondo, nonostante chissà quali e quanto gravi difficoltà che non conosciamo. Già questa è la prova di quel coraggio femminile che sa imporsi quando in gioco è la vita dei propri figli. Non solo, ma il gesto di deporre Elsa ben custodita in una strada frequentata, dice che nel cuore di chi l’ha lasciata lì c’erano la speranza e la fiducia che qualcuno se ne prendesse cura, come in effetti è accaduto. E quel “qualcuno” sono stati tanti, una comunità. Una comunità che di fronte a quella piccolina si è commossa e mobilitata per darle una famiglia. Forse non ci sono “culle per la vita” a Londra, ma certo quella borsa aperta, affinché Elsa potesse essere vista, fa pensare a una culla artigianale. Non abbandono, dunque, ma affidamento, fiducia, perché ogni bambino, che sia nato o che non lo sia ancora, merita il meglio da parte della società.
La stampa ha dato molto risalto alla commozione, in linea con una certa tendenza a fare delle emozioni il criterio della bontà dei fatti. Tuttavia, nel caso di “baby Elsa” quella commozione contiene qualcosa in più e di più profondo rispetto al semplice “fattore emotivo” e non coincide necessariamente con esso.
Per quanto riguarda i genitori di Elsa, la commozione significa vicinanza, abbraccio. Chissà se nelle difficoltà hanno trovato un aiuto, chissà con quali problemi hanno dovuto fare i conti, chissà in quale stato di miseria – non solo economica – e fragilità si sono trovati… Ma è certo su tutto hanno fatto prevalere la vita della loro bambina e la fiducia negli altri che l’avrebbero accolta.
Grazie, mamma e babbo di Elsa, per questa lezione di coraggio, di speranza e di fiducia.
Per quanto riguarda Elsa, la commozione coincide con la contemplazione del miracolo della vita, è il sobbalzo della consapevolezza che Elsa è una di noi, membro prezioso della famiglia umana, unica, irripetibile, un pezzo davvero unico nella storia e nell’universo. Universo lei stessa. Come ognuno di noi, come ogni essere umano che per la sua intrinseca bellezza è persona. Sempre.
Come sarebbe bello, auspicabile e profondamente umano che questa commozione – vicinanza che abbraccia, contemplazione, consapevolezza –, al di là delle emozioni, avvolgesse anche la moltitudine di bimbi cui viene impedito di nascere, anche loro meraviglia delle meraviglie, anche loro membri della famiglia umana. Sarebbe vittoriosa una società che anche per questi bambini, per le loro madri e i loro padri, si mostrasse prossima, accogliente, pronta a soccorrere, a incoraggiare, a dare prova di affidabilità di fronte alle difficoltà, disponibile a spezzare le catene della solitudine. “Dalla contemplazione del valore della vita umana, anche quando essa si trova nella condizione della più estrema povertà, tale è il caso del bimbo non ancora nato, è facile derivare una cultura capace di coerenza anche di fronte a qualsiasi altro problema in cui è in gioco la vita dell’uomo”. (Carlo Casini, in Sì alla Vita, marzo 1999, p. 5).
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