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Attualità

Kamikaze (fortunato). L’avventura umana di Odachi IN ARIA – Retorica, militarismo, falsità e missioni fallite di un 17enne in guerra. Effettuò otto voli suicidi, ma nessuno raggiunse l’obiettivo DI VALERIO CATTANO

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Ferdinando Terlizzi

 

IL LIBRO

Kamikaze (fortunato). L’avventura umana di Odachi

IN ARIA – Retorica, militarismo, falsità e missioni fallite di un 17enne in guerra. Effettuò otto voli suicidi, ma nessuno raggiunse l’obiettivo

DI VALERIO CATTANO
19 MAGGIO 2024

“Essenzialmente, siamo stati convinti dai nostri superiori a suicidarci”. In questa frase è condensata l’avventura umana di Kazuo Odachi, ex pilota giapponese nella Seconda guerra mondiale, la cui testimonianza è raccolta nel libro Memorie di un kamikaze, uscito in Giappone nel 2016 e riproposto in Italia da Garzanti.Per uscire dall’equivoco, è necessario avvisare i lettori: chi fosse alla ricerca di uno spirito marziale alla Yukio Mishima – lo scrittore-patriota che nel 1970 si suicidò facendo seppuku, dopo l’irruzione in una base militare come forma di protesta per il nuovo corso del Giappone lontano dai valori tradizionali – rimarrà deluso. Odachi è stato sì un patriota, ma durante la sua esistenza di militare, poliziotto, istruttore di kendo, si è posto numerosi interrogativi sulle scelte fatte, sia sul piano personale, sia rispetto a quello del suo Paese.

Tanto che, per più di 60 anni non raccontò a nessuno il suo passato militare. Memorie di un kamikaze è il frutto di un lavoro di inchiesta che si avvale non solo dell’ottima memoria del protagonista novantenne capace con lucidità di rimettere in fila gli eventi, sollecitato dall’avvocato Shigeru Ota e dal giornalista Yroioshi Nishijima, ma di una ricerca di archivio meticolosa per trovare riscontri alle indicazioni dell’ex pilota kamikaze.

La scrittura, dunque, è quella giornalistica, che mette in fila date e avvenimenti storici, ma non cade nella trappola della prolissità. Ben lontano dalla retorica militarista, Odachi mette in chiaro come Tokyo giunse a costituire le squadriglie della morte Tokkotai, il cui compito era schiantarsi contro le navi americane – in special modo le portaerei – con il loro caccia Zero munito di una bomba.

“Ero giovane e credevo che combattere per il proprio Paese, come i samurai di un tempo che combattevano per i loro signori, fosse una causa giusta. Non me ne sono mai pentito, ma dopo essere diventato un poliziotto e attraverso l’insegnamento del Kendo… ho iniziato a riflettere se la mia Via fosse giusta o meno”, racconta Odachi, che aveva 16 anni quando concluse il suo addestramento come pilota di caccia. Inizialmente è questo il suo compito: ingaggiare gli aerei nemici.

E qui arriva subito la prima doccia fredda per gli amanti del fanatismo nipponico: ricordando un combattimento avvenuto nell’ottobre 1944, Odachi dice con drammatica semplicità: “Le tattiche che ci erano state inculcate così a fondo erano senza speranza contro la schiacciante forza degli aerei americani”. Uno dei passaggi più drammatici riguarda il giorno in cui Odachi scopre quale sarà il suo destino. La chiamata arriva mentre il pilota, allora diciassettenne, assieme ad altri colleghi, era in servizio nella base Clark Air Field, nelle Filippine; alti ufficiali li invitarono a “offrirsi volontari” per missioni suicide. “Nessuno di noi ha avuto l’audacia di respingere questa ‘proposta di volontariato’, anche se ci fu detto che era una ‘decisione personale’”.

Ma il quadro era diverso e Odachi inizia a nutrire dubbi “per il modo in cui ricevevamo sollecitazioni dai nostri superiori, come se avessimo una scelta”. Il destino, dunque, appare segnato.

Eppure, tra il 4 aprile 1945 e l’agosto 1945, Odachi effettuò otto missioni kamikaze: nessuna fu portata a termine per una serie di fattori, tra cui maltempo, l’impossibilità di trovare la flotta nemica, e i duelli con i caccia americani che li intercettavano prima che i kamikaze potessero abbattersi su una portaerei. Il 15 agosto 1945, quando già la fortezza volante B-29 denominata Enola Gay aveva sganciato la bomba atomica, a Odachi viene ordinata l’ennesima missione suicida al largo di Okinawa: era già sulla pista pronto al decollo, quando una jeep si mise in mezzo. L’ordine era annullato, il Giappone si era arreso.

Da questo momento la narrazione muta scenario, ma non è meno interessante: Odachi racconta il Giappone post guerra, come gli fu offerto di entrare in polizia – gli americani gli avevano detto di trovarsi un lavoro al più presto e lui stesso sospetta che furono proprio loro a segnalarlo per l’arruolamento – e che proprio grazie all’impiego nella polizia riuscì a riprendere gli allenamenti di kendo, l’arte marziale che lo aveva appassionato sin da ragazzo, e che proseguirà persino a 90 anni, alzandosi alle 4 del mattino per andare agli allenamenti.

Cosa resta, dunque, di questo kamikaze che non perse la vita per l’Imperatore? Un uomo che ha cercato la sua Via; attraverso la sua testimonianza abbatte gli stereotipi che vogliono un Giappone intriso di fanatismo e disprezzo per la vita, tanto che al New York Times Odachi rivelò: “Non c’era una sola persona tra noi che da sola avrebbe deciso di voler morire”.

 

(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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