Unione europea: da Letta e Draghi la spinta al cambiamento
Due dossier strategici affidati ad altrettanti ex premier italiani: Enrico Letta e Mario Draghi. Due letture di carattere prevalentemente economico – il mercato unico, la competitività – con potenziali ricadute sul piano sociale, occupazionale, ambientale. La scorsa settimana l’Unione europea, con i suoi capi di Stato e di governo, ha preso in esame le relazioni proposte dai politici nostrani (già questo è un riconoscimento al Bel Paese), i quali hanno messo nero su bianco la necessità di un’accelerazione, di un cambiamento, di una ulteriore e coraggiosa convergenza a livello Ue per continuare a costruire un’Europa al servizio dei suoi cittadini e che abbia ambizioni globali.
“Non possiamo più permetterci di aspettare”, ha affermato Letta; “serve un cambiamento radicale”, ha fatto eco Draghi. Impossibile immaginare che i due politici esperti, chiamati a svolgere questi rapporti per conto del Consiglio e della Commissione europea, non si siano sentiti, concordando almeno il “taglio” dei rispettivi studi e interventi pubblici.
Non a caso si riscontrano significative continuità e contiguità tra le analisi e le proposte di Letta e Draghi: il ritardo dell’Europa rispetto ai grandi protagonisti della scena mondiale (Cina, Usa, Giappone, ma non solo); la necessità di considerare il contesto geopolitico (sicurezza, instabilità, crescente concorrenza economica, scalpitanti e sregolati mercati finanziari) e socio-ambientale (calo demografico europeo, cambiamento climatico), nonché due ambiti sempre più sfidanti: la transizione digitale e la questione-sicurezza.
Dai corposi documenti emergono specifiche sottolineature. Letta si sofferma su produzione, innovazione, economie di scala, risparmi, infrastrutture e indica la strada del “debito comune” per investimenti e innovazione. Draghi parla di strategia industriale, ritardo tecnologico da colmare, disponibilità di materie prime, tutela dei consumatori…
Valutazioni e proposte, dunque, al vaglio dei leader politici – che ne riparleranno –, nella speranza che questi studi, rivolti al futuro dell’economia, ma più complessivamente dell’integrazione europea, “non finiscano in un cassetto”.
C’è da augurarsi che il rimando alla prossima legislatura del Parlamento europeo, e alla futura Commissione, non sia una mossa per ritardare decisioni che appaiono indilazionabili. Con il rischio di perdere il treno del futuro.
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