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L’INCHIESTA

La cassaforte del clan e la rete di protezioni. I canali di investimento e di riciclaggio del denaro sporco, ma anche la trama di contatti e protezioni che hanno accudito, almeno fino al 2008 (anno delle condanne in appello nel processo Spartacus) un pezzo di mafia in terra campana. Sono questi i punti su cui battono gli inquirenti, nel corso della primissima fase delle indagini legate alla collaborazione con la giustizia di Francesco “Sandokan” Schiavone, il boss dei casalesi dai primi anni Novanta a capo della potente cupola mafiosa del casertano. Detenuto da 26 anni (dall’undici luglio del 1998) al carcere duro, settanta anni, condannato in via definitiva a ben 14 ergastoli, Francesco Schiavone ha deciso di imprimere una svolta alla sua vita e a quella dei suoi congiunti. Un pentimento strategico, per impedire tentativi di riorganizzazione della dynasty familiare per mano del figlio Ivanhoe (che verrà scarcerato il prossimo luglio). Una svolta passata sotto silenzio, che si è consumata in due carceri di massima sicurezza: siamo agli inizi di marzo, quando Schiavone cerca e ottiene un contatto con il procuratore nazionale antimafia Gianni Melillo e con il pm della Dna Antonello Ardituro, quest’ultimo per decenni al lavoro sui rapporti tra casalesi, imprese e politici collusi. Stabilito il primo contatto, il caso viene seguito dalla Procura di Napoli guidata dal procuratore Nicola Gratteri e affidato al pool della Dda che si occupa dei casalesi, sotto il coordinamento dell’aggiunto Michele Del Prete. Un lavoro in sinergia, che dà i suoi frutti, dal momento che la notizia del pentimento di Sandokan resta blindata (ieri è stata svelata da Cronache di Caserta), consentendo il trasferimento di Schiavone dal carcere di Aquila a quello di Parma. Per giustificare il trasferimento, viene costruita una verità posticcia, quella dell’urgenza dettata da un grave problema di salute: «Francesco Schiavone ha un tumore, è grave…», è stata la fake usata per giustificare il trasferimento di Schiavone e dare inizio alla sua collaborazione con la giustizia. Intanto, sono stati avvisati i suoi congiunti (che non sembrano interessati a un trasferimento in località protetta) ed ha preso inizio un lavoro investigativo che potrebbe dare i suoi frutti a stretto giro.

SUBAPPALTI

Chiara la strategia investigativa messa in campo dalla Dna e dalla Procura di Napoli: puntare ai capitali e alle protezioni. Quindi: andare oltre l’ala militare e la ricostruzione degli omicidi (che ovviamente restano una frontiera decisiva nelle indagini antimafia) e puntare ai capitali. Inchiesta che scava sugli insospettabili, magari tornando nel solco di traiettorie investigative già note, che potrebbero in questi giorni far registrare delle svolte clamorose. È il caso dei subappalti all’ombra delle grandi commesse nazionali, come i lavori per il rifacimento del manto e dei binari di alcune linee ferroviarie in Campania. Una inchiesta, quest’ultima, che è stata condotta in questi anni dai pm anticamorra Graziella Arlomede e dallo stesso Ardituro, che – qualche anno fa – coinvolse un imprenditore casertano (con studio professionale in viale Gramsci) del calibro di Nicola Schiavone (solo omonimo del boss oggi pentito). Un processo ancora in corso, che potrebbe far registrare delle conferme investigative, magari proprio con il debutto in aula dello stesso Sandokan. È una storia che fa leva sul presunto contatto tra soldi sporchi ed economia pulita, tra camorra casertana e pezzi del mondo produttivo napoletano e campano all’ombra delle grandi partecipate di Stato. Inchiesta datata 2017, approdata dinanzi alla terza sezione penale del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, nella quale si fa riferimento a finanziamenti occulti per il mondo politico di Casal di Principe ma anche per la carriera di manager di Nicola Schiavone.

LIEVITO MADRE

È ancora in questo dibattimento che sono venute fuori alcune ammissioni che ora attendono la versione dell’ex boss di Casal di Principe. Ricordate le parole messe agli atti da Giuseppina Nappa, moglie del boss oggi pentito? Riferendosi all’imprenditore Nicola Schiavone, disse che «ha usato il lievito madre» di mio marito. Metafora che ora attende riscontri sotto il profilo processuale. Stesso discorso da parte del figlio pentito di Sandokan, vale a dire di Nicola Schiavone (omonimo del manager imputato, fratello di Valter, anch’egli collaboratore di giustizia), che ha fatto riferimento a una «terra arata grazie al concime» messo diversi anni prima.

GLI ERGASTOLI

L’ultimo ergastolo incassato dal boss risale a un mese e mezzo fa, quando di fronte al gup Vinciguerra del Tribunale di Napoli, a Francesco Schiavone venne comminato il massimo della pena (nonostante la scelta del rito abbreviato) per il triplice omicidio dei fratelli Diana e Cantiello, chiudendo in questo modo la sua carriera di imputato numero uno. Era il quattordicesimo ergastolo, al culmine di una carriera criminale che nasce con la scomparsa del fondatore dei casalesi, quell’Antonio Bardellino sulla cui fine in Brasile (anno 1988) restano ancora dubbi e sospetti. Un caso, quello di Bardellino (probabilmente ucciso dalle nuove leve del clan) su cui Schiavone oggi potrebbe offrire il proprio contributo di chiarezza. Come per il delitto del carabiniere ventenne Salvatore Nuvoletta (anno 1982), per il quale Schiavone è stato assolto e scagionato da un reo confesso. Senza contare i tanti momenti di una crescita criminale, economica e politica che è andata avanti fino alla conferma delle condanne di Spartacus, ormai quindici anni fa. Fu in occasione della sentenza in Corte di Assise Appello a Napoli, che il boss fece sentire la sua voce, di fronte alle telecamere e ai taccuini di cronisti inviati per assistere al processo scandito da minacce a magistrati e giornalisti del calibro di Roberto Saviano e Rosaria Capacchione: «Chiedo che venga spento il monitor – disse dal carcere del 41 bis – non sono una bestia in gabbia al circo». Ora spetta a lui riaccendere il monitor, a distanza di dodici anni dalla scelta collaborativa di Antonio Iovine (suo socio, assieme ai due irriducibili Michele Zagaria e Francesco Bidognetti) e dei figli Nicola e Valter. Un racconto che potrebbe aprire lame di luce sui traffici di rifiuti che hanno devastato la Campania, ma anche sulle protezioni godute dai capi della Nuova famiglia, che da Bardellino alle nuove paranze controlla un pezzo di economia pulita in Campania: la storia del «lievito madre» che torna sul tavolo dei pm antimafia.

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IL RITRATTO
Gigi Di Fiore


Quando lo scovarono nell’attrezzato cunicolo sotto una palazzina di via Salerno a Casal di Principe, Francesco Schiavone era a soli 200 metri dalla sua casa di famiglia. Le descrizioni del bunker dell’allora capo dei capi della mafia-camorra dei Casalesi in provincia di Caserta sembravano uscire dagli stereotipi di una sceneggiatura di Mario Puzo: scorte di cibo in abbondanza, sufficienti per vivere rintanato per due mesi, due frigoriferi, tre mega-televisori, un computer, centinaia di film registrati e di cassette su corsi di pittura, libri di storia in gran parte delle Due Sicilie, ma soprattutto un cavalletto con sopra la tela di un dipinto a olio da terminare, che raffigurava il volto di Gesù. Era l’hobby, mai spento, del boss, che si documentava con corsi di pittura registrati, si allenava e aveva realizzato un suo autoritratto e un’immagine di Napoleone. Paralleli di mafia: l’hobby di Schiavone come quello di Luciano Liggio. Era mezzogiorno dell’11 luglio 1998, quando Schiavone fu arrestato dopo una lunga latitanza. Agli uomini della Dia, urlò: «Sono io, non fate nulla, ho le bambine con me». Erano le figlie, allora piccole, Angelica e Chiara. Le aveva concepite nella latitanza, a bordo dello yatch di 20 metri, l’Anfra II, poi sequestrato a un imprenditore prestanome. Libri, film, amore per i bei vestiti, tutto quello divenne per lui passato 26 anni fa. Sarebbe iniziata una lunga vita al carcere duro. L’epilogo di un’ascesa criminale in un’organizzazione mafiosa a lungo sottovalutata, nella provincia casertana dove in 19 anni, dal 1985 al 2004, si registrò un totale di 646 morti ammazzati. Una media di 40 all’anno, con il record di 88 uccisi nel 1992.

SANDOKAN

Lo chiamavano come il famoso eroe dei romanzi di Emilio Salgari, diventati sceneggiati televisivi di successo con protagonista l’attore indiano Kabir Bedi. Forse la barba tagliata in un certo modo, forse l’atteggiamento, gli affibbiarono il soprannome di Sandokan. Figlio di agricoltori, papà Nicola e mamma Teresa, iniziò la sua trafila criminale in una terra dall’antica storia mafiosa iniziata addirittura nell’800. Era l’ex carrozziere Antonio Bardellino di San Cipriano d’Aversa il referente dei gruppi criminali in quella provincia. Temuto e con un invidiabile spietato gruppo di fuoco, Bardellino fu protagonista della guerra contro i cutoliani prima e poi di quella interna ai vincenti. Era schierato con i boss Carmine Alfieri, Pasquale Galasso, i fratelli Moccia della provincia napoletana. Prevalsero contro i Gionta-Nuvoletta. Guerre tra mafiosi: era affiliato a Cosa Nostra don Lorenzo Nuvoletta, lo era Bardellino. All’ombra di quel capo, che riuscì a infiltrarsi negli appalti pubblici e nelle truffe sui contributi agricoli, reinvestendo all’estero i capitali guadagnati con la droga e le estorsioni, crebbe una generazione di killer con aspirazione di capi. C’era Francesco Bidognetti sul litorale domizio, che si arricchiva controllando la gestione nei locali delle slot machine, c’erano i fratelli De Falco, c’erano gli imprenditori fratelli Zagaria e c’era anche lui: Francesco Schiavone, che già a 18 anni mise la sua mancanza di scrupoli al servizio di Bardellino e fu arrestato per porto abusivo di arma. Su ordine di Bardellino, divenne il guarda spalla del boss napoletano alleato Umberto Ammaturo. Raccontò il pentito Achille Lauri: «Sandokan era uno dei killer dell’organizzazione e operava con Luigi Venosa a San Cipriano e dintorni».

LE COLLUSIONI

L’asse di comando e vertice si spostò da San Cipriano a Casal di Principe, centri che con Casapesenna formavano il triangolo di quell’organizzazione mafiosa. Il controllo della politica locale era sistematico. I voti del clan servivano a eleggere assessori e sindaci. Il terrore e le promesse di subappalti legavano imprenditori in cerca di guadagni senza concorrenza, nel movimento terra come nella fornitura di calcestruzzo imposta in tutti gli appalti. L’omertà era totale, sulle dita di una mano il numero di pentiti. Poco o nulla si sapeva di quel gruppo criminale. Schiavone non si tirava indietro nei delitti, ma era protagonista anche nell’attività di riciclaggio. Quando, il 13 dicembre 1990, in casa del vice sindaco Gaetano Corvino di Casal di Principe la polizia trovò Bidognetti e altri 4 affiliati, ma non Vincenzo De Falco pure convocato, tutti sentenziarono di essere stati «venduti». Fu la definitiva condanna a morte per De Falco. Ma prima era iniziata l’escalation della resa dei conti al vertice, per prendere il posto di Bardellino. Fu Mario Iovine a uccidere il boss in Brasile, dove erano concentrati i riciclaggi in tanti investimenti. Bardellino fu finito a martellate, ma il suo corpo non fu mai trovato. Il 26 maggio 1988, Iovine chiamò il gruppo di Sandokan e Bidognetti: «È fatta». Fu il segnale, che diede il via all’eliminazione di parenti e fedelissimi di Bardellino. Spietata fu l’esecuzione di Paride Salzillo, nipote di Bardellino: circondato, fu finito strozzato. Il regno di Mario Iovine, che aveva la mente annebbiata dalla cocaina, durò poco: il 6 marzo 1991 fu massacrato in Portogallo, mentre parlava in una cabina telefonica. Eliminato anche De Falco, iniziò l’era della cogestione criminale divisa tra Sandokan, Bidognetti, Zagaria, Antonio Iovine. L’affare rifiuti era gestito in prevalenza da Bidognetti, ma gli altri non ne erano estranei, almeno nei guadagni. Il 6 settembre 1991, il comune di Casal di Principe fu sciolto per infiltrazioni mafiose.

IL CURRICULUM

Quando venne arrestato, Francesco Schiavone era inseguito da ben sei ordinanze di custodia cautelare, accuse per tredici omicidi. Nel suo bunker, a dimostrazione che la pittura era accompagnata da altro, trovarono due mitra, un fucile a pompa, 181 cartucce, un coltello a serramanico. Gestore scaltro, si era inserito nell’appalto dei Regi Lagni e nelle truffe all’Aima. Nelle ripartizioni di introiti tra gli affiliati al 41-bis, in questi anni gli venivano riconosciuti dal clan 15mila euro personali, mentre i familiari degli arrestati del suo gruppo erano stipendiati per un totale di 300mila euro al mese. Significavano una rete estesa di connivenze e rapporti, anche di insospettabili da mantenere. Come Bardellino e Iovine, anche Sandokan non disdegnava di viaggiare all’estero dove riusciva a investire capitali da riciclare. In una delle sue latitanze, il 22 maggio 1989 lo beccarono a Millery in Francia. Dopo la scarcerazione nel 1985, iniziò l’ascesa costante di Sandokan fino al vertice dei Casalesi. I rapporti con i politici, gli imprenditori insospettabili e i colletti bianchi, l’affare rifiuti, il mistero dell’omicidio Bardellino: sono tante le cose che Schiavone potrebbe chiarire. Una scelta maturata dopo che, nel 2018, gli venne diagnosticato un male preoccupante. Una scelta che segue quella di due dei suoi 4 figli (Nicola e Walter). A 70 anni compiuti il 3 marzo scorso, dopo 26 anni al 41-bis, Schiavone ha scelto di mettersi alle spalle Sandokan. Dovrà confermarsi attendibile e fare rivelazioni nuove

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Adolfo Pappalardo
Ma ora svelerà davvero tutti i segreti? O vuole evitare il carcere a vita A domandarselo, in particolare, è chi ha seguito da vicino le vicende di Francesco Schiavone, detto Sandokan, il potente capo dei Casalesi da ieri ufficialmente pentito. Interrogativo di magistrati, in servizio o in quiescenza, oltre a giornalisti come Roberto Saviano.
LE INCHIESTE
«È certamente un evento di grandissima importanza», premette Federico Cafiero De Raho, ora parlamentare M5s ma soprattutto ex procuratore nazionale Antimafia. «Da lui – spiega De Raho che da pubblico ministero, rappresentò l’accusa nel processo Spartacus – si potranno ambire informazioni di grande rilievo, soprattutto sulla rete imprenditoriale, che costituiva i cartelli utilizzati dai Casalesi per potersi infiltrare negli appalti pubblici. E Schiavone potrebbe anche riferire della cassaforte del clan, che a tutt’oggi non è stata trovata. Inoltre – conclude – sul traffico dei rifiuti e sul disastro ambientale potrebbe essere una fonte per sapere dove sono stati sversati realmente i rifiuti tossici». Sulla stessa linea anche Raffaele Cantone, ora procuratore a Perugia ma in passato pm in alcune inchieste contro i Casalesi: «Adesso la speranza è che possa rendere dichiarazioni che permettano agli inquirenti di far luce su episodi che, ancora oggi, restano oscuri. Ma, soprattutto, che «possa parlare dei suoi rapporti con la politica e l’imprenditoria della provincia di Caserta, anche in riferimento anche alla Terra dei fuochi», aggiunge il magistrato.
I DUBBI
«Il pentimento di Schiavone è un segnale formidabile. La mafia casalese, che è stata combattuta in maniera molto efficace a partire dagli inizi del 2000, non esiste più», spiega Catello Maresca, consulente della commissione bicamerale per le questioni regionali, già pm della Dda di Napoli tra gli autori delle indagini che nel 2011 hanno portato all’arresto del boss dei Casalesi Michele Zagaria. Poi il magistrato aggiunge: «La lotta alla criminalità organizzata resta, però, ancora una priorità assoluta e va condotta con determinazione e strategia, sia sul fronte giudiziario che su quello di prevenzione e di diffusione della cultura antimafia».
«Ma collaborerà dando informazioni importanti o farà come il figlio e la moglie, e altri ex capi, che ad oggi hanno detto molto poco?», sono le domande che si pone in un post lo scrittore Roberto Saviano. E analizza: «Lui conosce mezzo secolo di storia del potere camorristico. La grande paura è che abbia trovato un momento di equilibrio in cui sa bene che non c’è un vero contrasto economico imprenditoriale da parte dello Stato alle organizzazioni criminali. Davvero collaborerà? Farà come Antonio Iovine che ci ha raccontato cose che sapevamo, o ci svelerà come spero nuove possibilità di conoscenza, soprattutto dove trovare i loro soldi, in quali paradisi fiscali sono, e tutti i rapporti con imprenditoria e politica».
Una vittoria per tutta la politica, a cominciare da Chiara Colosimo, presidente della commissione Antimafia che parla «dell’ennesimo durissimo colpo alla camorra e al crimine organizzato e la vittoria dello Stato che, con i suoi uomini e le sue donne migliori, non ha mai smesso di contrastare un fenomeno criminale devastante per il futuro della nostra Nazione. Un altro tassello verso la vittoria di tutti coloro i quali si riconoscono nelle istituzioni, nella giustizia e nella forza delle leggi

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«Può rivelare chi e come ha reinvestito i soldi del clan»
IN CARCERE DAL 98 IL SUO PENTIMENTO È IL PRIMO VERO TEST SUL FUNZIONAMENTO DEL 41 BI E IL REALE ISOLAMENTO

di Viviana Lanza

Dal mistero della scomparsa di Antonio Bardellino alla rete di protezioni, anche istituzionali. Raffaello Magi ci racconta cosa chiederebbe a Schiavone se potesse interrogare il capo dei Casalesi ora che ha deciso di collaborare con la giustizia. Dal 2013 Magi è consigliere in Corte di Cassazione ma nel 2005 fu estensore della sentenza di primo grado del maxiprocesso Spartacus, quello che ricostruì la storia e gli affari che tra il 1988 e il 1996 contribuirono alla potenza criminale dei Casalesi.
«Oltre a capire meglio come è andata la vicenda della scomparsa di Antonio Bardellino il cui corpo non è mai stato trovato, chiederei a Schiavone se la rete di protezione del clan si sia estesa anche all’ambiente giudiziario istituzionale, perché è probabile che abbiano provato a inquinare il processo Spartacus e ostacolare la tenuta della nostra sentenza», spiega.
Secondo lei è un pentimento reale oppure una scelta strategica, processuale o magari per colpire chi è ancora fuori e l’ha fatta franca
«Non ho elementi per immaginare una motivazione. Lui è sempre stato un irriducibile, per cui indubbiamente ci deve essere stato qualcosa che ha determinato questa sua scelta. Schiavone ha avuto in mano le redini dell’associazione in un momento molto importante, e cioè durante il transito dal gruppo storico di Bardellino al gruppo che abbiamo conosciuto tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, ed è stato latitante dal ’93 al ’98. Quello che secondo me può raccontare riguarda, quindi, l’esistenza di una rete di reinvestimento economico, una rete di protezione della sua latitanza e gli interessi del gruppo con rapporti di vertice non noti ai soggetti che nel clan sono semplici soldati. Per il ruolo di leader che effettivamente ha avuto, potrebbe dunque avere delle conoscenze non ancora svelate. Non dimentichiamo la faida con De Falco, l’omicidio di don Diana e tutte le relazioni che derivavano dai traffici dell’epoca, in particolare il monopolio del calcestruzzo e delle forniture alimentari. Per il resto, le sue dichiarazioni potrebbero diventare anche una sorta di test di funzionamento sul 41bis. Bisognerà capire se lui, nonostante il 41bis, dal ’98 abbia avuto, e in che modo, la possibilità di comunicare con l’esterno e se abbia inciso nella strategia stragista di Setola del 2008, perché il 41bis potrebbe non aver impedito un certo tipo di comunicazioni».
Che ricordi ha di Schiavone imputato e del processo Spartacus?
«Era ossessionato dall’idea che tutta la vicenda giudiziaria che lo riguardava dipendesse dall’appello lanciato da Luciano Violante quando era presidente dell’Antimafia e ripeteva che era tutta una congiura imbastita dalla stampa di sinistra: questo era un suo ritornello. Quanto al processo, nacque con una certa diffidenza, anche in relazione alla sua fattibilità. Era dalle dimensioni particolari, con 125 imputati e una serie di collaboratori di giustizia che man mano si aggiunsero al collaboratore iniziale che era Carmine Schiavone, facendo dilatare i tempi del dibattimento e impegnandoci a comprendere se le nuove collaborazioni fossero strumentali o fondate su realtà conoscitive. Fu all’epoca una sfida importante da vincere: nella diffidenza generale riuscimmo a mettere un punto fermo su una storia che era molto radicata nel nostro territorio e che se non fosse stata fermata avrebbe continuato a prosperare, perché il clan aveva adottato lo stile mafioso facendo soldi con attività apparentemente lecite».

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«E’
PRIMO PIANO
«Ora ha capito che non è più il suo mondo: è una resa»
LA SUA TESTIMONIANZA HA UN VALORE STORICO SUPERIORE AI SINGOLI EPISODI CHE RACCONTERÀ LA MORTE DI BARDELLINO? RESTERÀ UN MISTERO
Redazione
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Sabato 30 Marzo 2024

Gianni Molinari
Rosaria Capacchione è un pezzo di storia del Mattino: per 30 anni ha raccontato i Casalesi e, tra questi, Francesco Schiavone. Dal 2007 vive sotto scorta, anche ora che, da alcuni anni, è in pensione. Il suo metodo è infallibile: una ossessione per i particolari da tenere insieme ai grandi fatti e aggiornare continuamente lo scenario. I camorristi l’hanno studiata, già sotto scorta ha subito uno strano furto in casa e il suo libro “L’oro della Camorra” è stato trovato nei covi di Setola e Zagaria.
Cosa ne pensi?
«La domanda giusta sarebbe da quanto tempo lo sapevi».
Non me lo dirai mai.
«Non ti risponderò mai».
Quindi?
«Lo immaginavo, era nell’ordine delle cose, ma che potesse succedere così no»
Che significa
«E’ semplice: lui, a differenza degli altri, non aveva mai cercato di far diventare i figli camorristi, di lasciare loro un’eredità camorristica. Quando ha capito, e questo è avvenuto intorno al 2001, che non sarebbe più uscito dal carcere i figli sono diventati la sua ossessione. Avrebbe voluto che studiassero, che andassero via da Casale. C’è un colloquio drammatico intercettato in carcere nel 2009, dopo gli omicidi di Setola, dove temeva ritorsioni sulla famiglia e aveva paura che venissero uccisi i figli. Le cose sono andate diversamente con Nicola che si era messo in testa di fare il capoclan e fu protagonista di un triplice omicidio».
E allora
«Quando si è pentito Nicola ho pensato che ci fosse la sua regia e che di lì a poco si sarebbe pentito pure lui. Questo legame molto forte, ma molto umano mi aveva lasciato ben sperare».
Perché oggi?
«Ha capito che fuori non c’è più il mondo che ha lasciato lui. Non si è pentito, si è arreso al trascorrere del tempo alla storia. Il clan è morto. E anche il figlio Emanuele che manda proclami in attesa della sua scarcerazione non è più nessuno. La camorra funziona cosi»
Che personaggio è?
«È la storia dei casalesi, l’ultimo tramite con Cosa Nostra: bisogna inquadrarlo negli anni 80. Era uomo di Bardellino, era autista di Umberto Ammaturo, aveva rapporti internazionali per il traffico di droga. Una facilità unica: i marsigliesi, Cosa Nostra americana, forse i servizi segreti di mezzo mondo. Poi i grandi capi Buscetta, Badalamenti, Nuvoletta: rapporto tra pari»
Parlerà di Bardellino e della sua scomparsa
«Nemmeno lui sa davvero se Mario Iovine ha ucciso Bardellino. Resterà un mistero».
Cosa potrà rivelare?
«La storia, gli omicidi avvenuti intorno al 1988 non risolti, rapporti alti che non conosciamo, con apparati, con livelli di protezione a livello internazionale. Il valore storico e simbolico che va al di là dei singoli fatti. Peraltro i reati associativi eventualmente individuati sono prescritti».
Com’è nato camorrista
«Veniva da una famiglia di latifondisti, i cutoliani chiesero il pizzo e lui li ammazzò. In quel mondo funzionava così. Poi c’è il peso della storia e il suo carisma»
Che rapporti hai avuto con lui?
«Mai. L’ho visto solo ai processi. Mai parlato. Ma ho ricevuto molti messaggi, soprattutto dalla moglie, Giuseppina Nappa. Venne pure in redazione a Caserta e mi telefonò. Le dissi “Signora, lei è il motivo per il quale io non posso mettere piede a Casale».
C’è qualcuno che ieri notte non ha dormito?
«Non sono in grado di dirlo. Di un po’ di omicidi non si conosce la genesi. Ma sempre roba del passato

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