‘Al microscopio’ una parola al giorno, anzi due: oggi analizziamo insieme i vocaboli: Strumentalizzare e Triboelettricità
SIGNIFICATO: Servirsi di qualcuno o di qualcosa per un proprio fine rispetto a cui è estraneo
ETIMOLOGIA: da strumentale, derivato di strumento.
- «Hanno strumentalizzato le mie parole».
Se l’uso di una parola ne traccia il significato come il passo traccia il sentiero, lo strumentalizzare è tracciato da una masnada con scarpe chiodate.
Poche parole hanno una simile visibilità nel discorso pubblico, poche sono pronunciate in modo tanto intenso, con tanto scandalo, e in un modo tanto ricorrente da rasentare la compulsione. Proprio per questo è bene metterla sul tavolo e annusarla a dovere.
È una parola elefantiaca, e anche qui sta il suo successo: è così lunga che non si mette in dubbio dica qualcosa di pregnante e serio. È ottenuta con il suffisso verbale -izzare, uno dei più produttivi nell’italiano contemporaneo (fin troppo, la varietà langue) a partire dall’aggettivo ‘strumentale’ — un aggettivo per la verità tutt’altro che banale.
Infatti ha una certa ramificazione di significati. Secondo il ramo che ci interessa qui, parte dal significato di ‘che serve da strumento’ (un esempio, l’uso strumentale del gioco per far passare un concetto o insegnare un’abilità) — e di qui lo strumentale arriva a qualificare anche ciò che è fatto per secondi fini.
Il che è sorprendente, perché ci presenta una doppiezza nella stessa idea di strumento — pensavi fosse solo una selce come tante della sassaia No, è una selce doppiogiochista perché l’ho affilata e oltre a fare il sasso fa anche il coltello. Ti sembra un vecchio osso, che come tutte le altre ossa osserebbe e basta E invece è un osso voltagabbana, perché con questi buchini che ci ho fatto, se ci soffio dentro, suona.
L’attributo che lo strumentale ci racconta può essere proprio questo: io prendo qualcosa che (almeno teoricamente, si suppone) avrebbe una sua dimensione autonoma, e lo uso per raggiungere un mio scopo. Parte una polemica, ma non è una polemica genuina, di pancia, nata così perché alla gente sincera piace la repubblica: è una polemica strumentale che io, malfidato come un serpente, ho acceso per screditarti.
C’è una manifestazione, ma non è una manifestazione che abbia veramente i fini dichiarati, quelli a cui si riferiscono gli striscioni e i cori: è una manifestazione strumentale, contro chi è al potere, e chi è al potere — che è sempre molto suscettibile — lo sa e lo dichiara ai giornali.
Abbiamo questo primo inevitabile rilievo, ignaro del suo potenziale ironico: usare qualcosa per qualcos’altro è moralmente riprovevole. Solo i sassi digrossati dall’erosione che hanno la decenza di restare a smottare sul fianco del monte sono sassi affidabili, le polemiche vanno bene ma solo se nessuno le porta da nessuna parte, e la gente deve volere una cosa alla volta.
La sesquipedale ‘strumentalizzazione’ (diciannove lettere, e fa un settenario tutta da sola) s’installa qui. Quando strumentalizzi, ti stai servendo di qualcuno o di qualcosa per un tuo fine. Un fine più o meno palese, e che soprattutto non riguarderebbe direttamente chi ò ciò di cui ti servi. Lo strumentalizzare però ha dei caratteri ulteriori.
È estremamente comune che qualcuno colga un evento o un fatto e lo adoperi per un fine proprio, che non pertiene a quell’evento o a quel fatto.
Lo strumentalizzare però ha una certa prontezza rapace, e questo lo rende eccezionalmente adatto al carosello dell’attualità: una persona importante fa una dichiarazione, e io non le do nemmeno il tempo di chiudere la bocca che la strumentalizzo per portare acqua al mio mulino — non c’entrava niente con me, ma riprendo la dichiarazione, la reinquadro e la servo; il politico è nientemeno che scattante, quando c’è da strumentalizzare anche il fatto di cronaca più tangenziale (ma tragico), per dare valore al proprio impegno politico; con le forze giuste possiamo strumentalizzare un movimento, facendogli ottenere un risultato che interessa a noi, non a lui; e naturalmente strumentalizzo un problema della città per attaccare l’amministrazione (lo impugno a mo’ di clava e bam, sulla testa morale del sindaco).
Il concetto è di per sé sottile, sfaccettato, ingombrante, contraddittorio — mica semplice. L’uso ha un grado di intensità estremo, e una diffusione capillare: questo fa sì che sia un uso molto rumoroso e paradossalmente difficile da calibrare.
Si sovrappone e distingue dallo sfruttare, più palese; dall’usare, più semplice e vago; dall’approfittarsi e dal profittare, più tiepidi; dall’abusare, più grave. Ma forse, l’uso di un sinonimo o di una perifrasi può aiutare a togliere pressione a questa parola, a rimettere a fuoco ciò che con essa davvero intendiamo dire. Anche perché tende a essere usata in assoluto, lasciando ampi non-detti: se sento dire «non voglio che le mie parole siano strumentalizzate», difficilmente quest’espressione sarà corredata poi con le circostanze di chi, in effetti, ci vuole fare che cosa e come.
Finisce per essere un verbo facile da strumentalizzare per quella branca di retorica in cui si dipingono dei ‘loro’ che tramano misteriosamente. Meglio prendersi la responsabilità dei propri concetti in modo più chiaro.
L’aggettivo triboelettrico ha una storia bizzarra: descrive un fenomeno conosciuto fin dalla più remota antichità, ma è attestato solo a partire dal 1930; viceversa, il sostantivo triboelettricità è addirittura successivo, del 1961! La loro chiave di lettura risiede nel prefissoide ‘tribo’, che non ha niente a che fare, come si potrebbe pensare, con il latino tribulare ‘opprimere, tormentare’ ma, come descritto nell’etimologia, con il greco tribo, ‘sfregare’.
In effetti si tratta del fenomeno ben noto per cui certi materiali, come il vetro, quando vengono strofinati si caricano di un’elettricità statica che può attrarre pagliuzze o piccole piume, nonché far scoccare scintille sulla pelle dell’incauto sperimentatore – anche se lo stesso accade ai comuni mortali, ad esempio quando scendiamo dall’automobile, o ci sfiliamo il maglione di lana in giornate in cui l’aria è particolarmente secca.
Il primo filosofo della natura di cui si conosca un interesse per questi fenomeni fu Talete di Mileto, vissuto fra il VII ed il VI secolo a.C. Egli andava alla ricerca dell’anima di tutte cose, non curandosi del fatto che fossero vive o inanimate; ed infatti secondo lui era proprio a causa di un’anima, se il ferro si muoveva verso un magnete, oppure se fenomeni in qualche misura simili accadevano con oggetti elettricamente carichi. Tuttavia, dopo questo promettente inizio, le conoscenze in merito all’effetto triboelettrico (sfregamento, attrazione, scariche elettriche) non progrediranno nei due millenni successivi.
In tempi moderni fu l’inglese William Gilbert a pubblicare, nel 1601, il trattato ‘De magnete’ nel quale vengono finalmente separate le due classi di fenomeni, relativi a magnetismo ed elettricità. Mentre i primi avevano un nome ormai classico che derivava dalla magnetite, minerale che si estraeva nelle vicinanze della città di Magnesia in Asia Minore (l’odierna Manisa), mancava un nome per i secondi; allora il Gilbert, nell’immaginare l’esistenza di un fluido elettrico, gli assegnò un nome che derivava dal nome greco dell’ambra: élektron, la sostanza che usava per i suoi esperimenti.
L’opera di Gilbert darà il via a molte altre ricerche, come quelle di poco successive del nostro Niccolò Cabeo che scopre la repulsione elettrica (quella magnetica era nota dall’antichità). Nel giro di altri cento anni si accumulerà la conoscenza di un imponente catalogo di fenomeni, sempre più complessi e sempre più difficili da interpretare, con notevoli analogie nonché differenze rispetto al magnetismo. Ecco un’analogia: così come nel magnetismo ci sono un nord e un sud, ad un certo punto si comprenderà che esistono due tipi di elettricità statica, positiva e negativa; ed una differenza: i fenomeni magnetici noti all’epoca erano permanenti, mentre quelli elettrici potevano essere generati o annullati a piacimento – e persino trasferiti da un corpo ad un altro.
Per quanto riguarda l’elettricità, un passo avanti verso la sua comprensione si dovrà a Benjamin Franklin, il primo ad intuire che le due polarità elettriche erano causate da un unico fluido, il cui eccesso o difetto causava appunto le due polarità, mentre in caso di perfetto equilibrio cessava ogni fenomeno elettrico. In effetti è proprio così: per i più curiosi, diremo in due parole come stanno le cose.
Ogni materiale è composto di elettroni che orbitano intorno ai nuclei degli atomi a cui appartengono, rimanendo legati ad essi da forze più o meno intense a seconda del tipo di sostanza. Prendiamo in considerazione due materiali diversi, elettricamente scarichi. Quando li avviciniamo fino a toccarsi fra loro, gli elettroni della sostanza a cui sono legati in maniera debole possono spostarsi su atomi di una sostanza che li attragga maggiormente; dunque dopo il distacco, una sostanza disporrà di qualche elettrone in più, diventando negativa, mentre l’altra diventerà positiva per carenza degli stessi. Lo sfregamento (ricordate il prefissoide tribo?) comporta una ripetuta serie di unioni e separazioni, con reiterato trasferimento di elettroni da una sostanza all’altra, e accumulo di cariche sempre maggiori: è il caso dei fulmini, causati proprio da enormi accumuli di elettricità atmosferica.
Certo Franklin non poteva immaginare l’esistenza degli elettroni, comunque la sua idea di un fluido elettrico in linea di massima era giusta. Ma a proposito degli elettroni sorge un’altra domanda: perché essi hanno carica elettrica negativa
Come dicevamo, l’utilizzo di varie sostanze negli esperimenti aveva portato alla scoperta delle triboelettricità positiva e negativa, ed al vetro era stata assegnata, del tutto arbitrariamente, quella positiva. Successivamente si scoprirà che il vetro tende a cedere elettroni; di conseguenza, se perdendo elettroni il vetro diventa positivo, vuol dire i nuclei degli atomi che rimangono al loro posto sono positivi, e che gli elettroni che se ne allontanano sono negativi.
E l’ambra, la sostanza che ha dato il nome a tutti i fenomeni elettrici? Ebbene essa gli elettroni li accetta volentieri in prestito, diventando negativa. Dunque continua a prestare il nome a tutti fenomeni elettrici – ma in cambio gradisce di essere ripagata… in elettroni!