Anteprima “The Holdovers” di Alexander Payne e su Netflix il gran finale di “The Crown”
Si è aggiudicato tre candidature di peso, tra cui quella di miglior film, per l’81a edizione dei Golden Globe, in calendario il prossimo 7 gennaio. È “The Holdovers. Lezioni di vita”, ottimo ritorno dietro alla macchina da presa del Premio Oscar Alexander Payne (“Sideways”, “Paradiso amaro”). Un film che si muove tra commedia amara e racconto di formazione con protagonista un magnifico Paul Giamatti. Sarà nei cinema dal 18 gennaio 2024 con Universal. Su Netflix dal 14 dicembre va in scena l’ultimo atto del biopic su Elisabetta II: parliamo della serie “The Crown”, con la seconda parte della sesta e ultima stagione. Un gran finale perfettamente orchestrato da Peter Morgan e con alla regia il ritorno di Stephen Daldry (“Billy Elliot”, “The Reader”), che aveva firmato il primo episodio nel 2016. “The Crown” resta una serie ottima, che ha fatto scuola, il racconto della corona inglese e della Storia declinato in maniera avvincente come un thriller politico e al contempo un dramma sentimentale ed esistenziale. Maestoso. Il punto Cnvf-Sir.
“The Holdovers. Lezioni di vita” (Cinema, 2024)
Torna Alexander Payne, regista-sceneggiatore statunitense classe 1961 vincitore di due Premi Oscar per i copioni dei suoi film “Sideways” (2004) e “Paradiso amaro” (“The Descendants”, 2011). A sei anni di distanza dal suo ultimo titolo, “Downsizing” (2017), Payne firma un film potente, ruvido e toccante. È “The Holdovers. Lezioni di vita”, in corsa ai prossimi Golden Globe: è candidato come miglior film nella categoria commedia e musical, per l’attore protagonista Paul Giamatti e l’attrice non protagonista Da’Vine Joy Randolph.
La storia. New England 1970, Natale. Nel prestigioso collegio maschile Barton Academy gli studenti si preparano a raggiungere i propri genitori per le vacanze. Non tutti però. A rimanere indietro è Angus Tully, che la madre preferisce lasciare alla Barton per potersi regalare finalmente la luna di miele con il nuovo marito. Angus è seccato, scontroso e arrabbiato, soprattutto perché deve trascorrere i giorni di festa con il prof. Paul Hunham, docente di Storia antica costretto a presidiare la struttura. Insieme a loro c’è anche la capo cuoca Mary Lamb, bloccata in un bruciante dolore per la perdita del figlio ventenne in Vietnam…
Con “The Holdovers” Payne firma il suo personale racconto di formazione sul binario de “L’attimo fuggente” (“Dead Poets Society”,1989), anche se taglio e tono narrativo sono chiaramente diversi, quasi capovolti. Il film di Peter Weir aveva un tono drammatico-lirico, un viaggio esistenziale verso l’età adulta in presenza di un professore atipico, trascinante, John Keating – l’indimenticato Robin Williams –, che invitava alla rivoluzione gentile dell’animo con i versi delle poesie di Walt Whitman (“O Captain! My Captain!”).
In “The Holdovers” Payne tratteggia la condizione di tre solitudini: un professore “bollito”, un ragazzo alla deriva e una cuoca in lutto. In particolare, Paul Giamatti cesella il personaggio del prof. Hunham quasi nella stessa traiettoria del prof. Keating, ma sovvertendone lo stile: via il fascino e il trasporto, calcando invece la mano sul lato goffo e ammaccato di un docente schiavo della bottiglia. Quando si trova però davanti a un giovane abbandonato dai suoi cari, prigioniero del suo dolore esistenziale, il prof. Hunham ha un moto di ribellione: desidera per una volta fare la cosa giusta, assolvere davvero al suo compito di educatore. Hunham vuole salvare Angus da un destino di miseria e solitudine. Il docente fa di tutto perché il ragazzo creda in se stesso, nelle sue capacità brillanti, e (ri)trovi lo slancio per sperare in un futuro di possibilità. E proprio qui l’opera di Payne riesce a dare il meglio di sé, componendo un racconto intessuto di solidarietà e tenerezza, di grande intensità e con chiare striature poetiche. Certo, ammantato anche da una carica ironica e sarcastica, al limite dell’irriverenza, con battute fulminanti.
“The Holdovers” è un’opera scritta e diretta magnificamente da Alexander Payne, un racconto dalla cornice tipicamente americana acuto e stratificato, esaltato al meglio da una recitazione incisiva e convincente, in testa di Paul Giamatti ma anche dai comprimari Da’Vine Joy Randolph e l’esordiente Dominic Sessa. Consigliabile, problematico-poetico, per dibattiti.
“The Crown 6” (Netflix, 14.12)
Ci siamo. È arrivato il gran finale di una delle serie manifesto di Netflix. È “The Crown”, sguardo ravvicinato su Elisabetta II, tra pubblico e privato, tra Storia e stanze familiari, interiori. La serie uscita dalla penna di Peter Morgan è partita nel 2016 capitalizzando un’attenzione crescente non solo nel Regno Unito ma anche nel resto del mondo. Tra plausi di critica e pubblico, “The Crown” si è imposta nei vari premi di settore: 15 nomination ai BAFTA, 10 ai Golden Globe (4 vittorie a oggi), 69 nomination agli Emmy (21 vittorie). Dal 14 dicembre sono disponibili gli ultimi episodi, la seconda parte della stagione 6. In scena Imelda Staunton (Elisabetta II), Jonathan Pryce (Filippo), Lesley Manville (Margaret) e Dominic West (Carlo), affiancati dai giovani Ed McVey (William), Luther Ford (Harry) e Meg Bellamy (Kate).
La storia. Dopo la morte di Lady Diana, la corona inglese attraversa un periodo di incertezza. Il primo ministro Tony Blair commissiona una serie di sondaggi per capire come migliorarne l’immagine pubblica. Oltre alla sfida del consenso, Elisabetta II si deve rapportare con i preparativi per i 50 anni di regno, ma anche con l’insidiosa inchiesta per la morte della principessa del Galles (legata alle accuse mosse da Mohamed Al-Fayed) e inaspettati terremoti familiari, la salute vacillante della principessa Margaret e della regina madre. L’attenzione pubblica si fa poi sempre più pressante verso i principi William e Harry. In particolare, William si sposta dal College Eton all’Università di St. Andrews in Scozia dove conosce, rimanendone subito ammaliato, la coetanea Kate Middleton…
“The Crown 6” ritrova il passo giusto dopo la precedente stagione un po’ incerta nella linea di racconto e d’interpretazioni. Qui gira tutto in maniera spedita, splendidamente, tra sceneggiatura, regia, messa in scena e attori. Vediamo la sovrana, che Imelda Staunton ritrae con convinzione e pieno controllo, al crocevia della Storia: rilegge il proprio passato, i tanti accadimenti fuori e dentro al palazzo (bellissimi i raccordi con le prime stagioni, con i volti di Claire Foy e Olivia Colman), e al contempo esamina i cambiamenti della monarchia negli anni Duemila. Ottimo il nono episodio, “Hope Street”, dove Elisabetta deve fronteggiare l’ansia per i festeggiamenti della corona, intimorita dal trovare una piazza vuota davanti a Buckingham Palace. Uno dei passaggi più commoventi e poetici si registra nell’ottavo episodio, dal titolo “Ritz”, dedicato alla principessa Margaret, tra calvario della malattia e il ripensare al legame con la sorella Lilibet, andando indietro con i ricordi al 1945, quando le due giovani uscirono da palazzo per confondersi nella folla in festa per la fine della Seconda guerra mondiale.
Ancora, convincono gli episodi dedicati ai principi William e Harry, tratteggiandone l’ingresso nell’età adulta con un diverso temperamento e rapporto con il proprio ruolo pubblico. In particolare, si segue la traiettoria di William – molto bene l’interpretazione dell’esordiente Ed McVey – durante gli studi universitari, tormentato dall’inchiesta giudiziaria sulla madre e il desiderio di una vita normale. Lì avviene l’incontro con Kate Middleton, raccontata come una delle più brillanti e determinate studentesse del campus; gli sceneggiatori non lesinano in frecciatine verso la famiglia Middleton, soprattutto rimarcando il desiderio di ascesa sociale della madre.
Infine, una parola sull’episodio finale “Sleep, Dearie, Sleep”, titolo che richiama un’elegia per cornamusa. Senza fare alcuna rivelazione, semplicemente possiamo dire che la conclusione della serie è bellissima, intensa e toccante. Un finale perfetto, sia per lo sguardo politico sia per quello personale, introspettivo. Applausi!
Nel complesso, il racconto di “The Crown” si conclude in maniera sicura e riuscita, mettendo a segno un affresco storico imponente ed elegante, abile nel gestire le rotte della Storia e al contempo romanzare una vicenda privata, familiare, che continua a destare attenzione e fascino. Un’opera di grande qualità narrativa e visiva, ottima per interpretazioni e realizzazione, senza dimenticare la riuscita colonna sonora (affidata nel tempo a Hans Zimmer, Rupert Gregson-Williams, Lorne Balfe e Martin Phipps), che ha pochi pari nel panorama audiovisivo contemporaneo. È il caso di dire: “God Save the Queen, the King and ‘The Crown’”. Serie consigliabile, problematica, per dibattiti.
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