Svegliare i sonnambuli
Ci è sempre stato detto che svegliare i sonnambuli può essere cosa pericolosa. Eppure potrebbe essere proprio questa la vocazione della Chiesa in questi nostri giorni. Attenzione, però, non diamo prima di tutto per scontato di essere svegli noi stessi. Secondo il rapporto Censis 2023 che, pubblicato la scorsa settimana, fotografa il nostro Paese nei tratti e negli indicatori che caratterizzano il vissuto sociale, culturale ed economico degli italiani, saremmo infatti una “società di sonnambuli”, individui che vagano addormentati alla ricerca di un po’ di felicità nelle piccole cose quotidiane, abitati da “desideri minori, a bassa intensità”. Persone che più non osano sognare in grande, né credere in un futuro migliore che giustifichi impegno, fatica o sacrificio per degli ideali.
Di buono sembra esserci finalmente il frantumarsi dell’illusione consumistica, quell’idea secondo cui la felicità risiederebbe nel comprare e nel consumare, che per tanto tempo ci ha tenuto in ostaggio e contro cui invano i buoni parroci hanno tuonato, inascoltati, dai pulpiti. Gli italiani sembrano oramai per la maggior parte essersi fatti convinti che non si può vivere per lavorare, guadagnare, comprare e consumare, tornando poi a lavorare per ancora guadagnare e comprare, in un ciclo senza fine, simile a quello dello sventurato Sisifo incatenato alla sua pietra. Cresce il numero di coloro che desiderano liberare tempo per le relazioni e per i propri interessi e passioni personali, rinunciando a posizioni lavorative apicali, accontentandosi magari di un reddito minore, pur di ridurre lo stress, l’ansia e le preoccupazioni. Quasi il 75% dei lavoratori ha dichiarato esplicitamente di non avere voglia di lavorare di più per poter consumare di più. Il lavoro sembra, inoltre, aver perso anche il suo significato più profondo di costruttore dell’identità personale e perno della vita sociale. Per la quasi totalità degli intervistati la scelta di fare del lavoro il centro della propria vita e il principale fattore di definizione della propria identità sarebbe un errore: meglio trovare il proprio benessere e la propria realizzazione nelle piccole cose quotidiane, nell’intimità delle relazioni più strette, nelle passioni individuali, rispetto alle quali il tempo dedicato al lavoro risulterebbe solo una sorta di pedaggio da pagare. Ma se “accontentarsi” può essere certo una virtù quando è riferita ai beni materiali (il “pauca vescor” della temperanza), questo atteggiamento di retroguardia rischia di portare, quando riguarda invece i valori, gli ideali e l’impegno sociale, ad un pericoloso ripiegamento sul privato, ad un piccolo cabotaggio ottuso, ad una rassegnazione tutt’altro che cristiana. Si spengono i desideri, non si crede più nella forza dei sogni, spariscono le visioni del futuro, limitandosi a rispondere nell’oggi ad alcuni bisogni elementari e ad inseguire qualche rara e fuggevole briciola di felicità. Il Censis afferma che dopo il tramonto del modello consumistico, la pandemia e nell’insicurezza dettata dalla paura per un possibile conflitto globale, sarebbe dunque in atto tra gli italiani un “ripensamento diffuso del senso della vita e delle cose importanti a cui dedicare le proprie energie”. E allora, pur nella consapevolezza dell’ambiguità di tale fenomeno, vien spontaneo chiedersi se non potrebbe essere in realtà questo anche un terreno fecondo per la rinascita della fede e della pratica religiosa tra gli uomini e le donne di oggi. Certo molto dipenderà dalla qualità della risposta che la Chiesa nel suo insieme e che ogni singolo cristiano saranno in grado di dare, soprattutto nei termini di una concreta, convinta e credibile testimonianza di vita.
(*) direttore de “La Voce dei Berici”
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