I volti della povertà in carcere
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Milano. I volti della povertà in carcere
di Rossana Ruggiero L’Osservatore Romano, 3 dicembre 2023
Quando si parla della malattia durante la detenzione, si pensa soprattutto a quella psichiatrica che imprigiona la mente, prima che il corpo. In carcere si ammala la mente e il corpo: si soffre e si muore anche di cancro, di leucemia, per patologie cardiache. Si ricevono cure e si affronta la malattia, ritenendola – in alcuni casi – quasi residuale rispetto al vissuto dietro e oltre le sbarre. Come un’ombra sulla propria vita, pesa terribilmente generando un aggravio di sofferenza. La richiesta di incontrare due malati del centro clinico è stata accolta dalla direzione del carcere di San Vittore e il primo detenuto che abbiamo incontrato è Massimo.
“Volete un caffè?”. “Beh, non saprei”, rispondo. In verità non so nemmeno se possiamo accettarlo… caffè preparato in cella, in pieno Centro Clinico, che Massimo porta in corridoio in un termos datato. Matteo risponde di sì, io invece guardo l’orologio e soprassiedo: “Grazie, preferisco di no, è già mezzogiorno”. Due ore ininterrotte di storie per raccontare quasi trentacinque anni di carcere, aggravati dalla malattia e dalla solitudine. Restiamo in attesa che gli agenti di polizia penitenziaria portino in biblioteca la tastiera per consentire a Massimo di suonare, mentre altri detenuti fanno capolino, chiedono un’intervista o ci mostrano degli oggetti che hanno imparato a costruire, una situazione surreale che accorcia le distanze. “Non sono egocentrico, non credo nell’apparire e quando in carcere hai la fortuna di scoprire che hai una dignità e la fede, puoi anche non avere niente altro a livello economico che riesci a superare tutto. Ho fatto tantissimi anni di carcere, ho espiato più di 35 anni, poi ho trovato questa ricchezza e ne ho fatto una roccaforte”.
Massimo, sessantadue anni, è persona colta, eclettica e molto intelligente. Gli do del “lei” durante tutto il nostro incontro, che inizia esattamente così… parlando della dignità umana. “Visto che mi parla della dignità, me la può descrivere? Cos’è la dignità per lei?”: “La dignità è qualcosa che nessuno ti può prendere, qualcosa che attribuisce l’integrità all’uomo e ai suoi principi. Quando sei un uomo di principi, hai dignità e puoi superare tante cose”.
Massimo nasce in una famiglia borghese di Milano, i suoi genitori lavorano entrambi, ma già da bambino è affetto dal disturbo da deficit di attenzione/iperattività (adhd), patologia che accerta però all’età di 58 anni. “In classe, quando sei un bambino iperattivo, la tua attenzione dura 20 minuti su 4 ore… io, difatti, ero sempre fuori dal preside. Oggi è più facile, ma cinquant’anni fa non se la sognavano neanche! Se lo avessero capito, forse non avrei combinato tutto il resto. Velocità di pensiero, velocità di azione, per questo con gli anni, con i reati, mi hanno dato la pericolosità, perché non ero facile da controllare. Mi hanno marchiato a fuoco”.
Massimo ritiene di essere fortunato “perché alla fine l’esperienza del carcere non la puoi fare in un altro modo e, se non hai la forza, vieni cancellato nell’animo”. Ogni volta che è uscito di carcere si è scontrato con la povertà nei dormitori di Milano, la solitudine, la mancanza di un lavoro, di un tetto… poi un grave incidente stradale da uomo libero, l’ adhd tardivamente accertata e una patologia cardiaca gli faranno scontare gli ultimi anni a San Vittore, nel centro clinico.
“Meglio il carcere?”, gli chiedo. La risposta sarebbe stata una sconfitta e non l’attendo. Guardo verso la testiera e invito Massimo a suonare. La musica è una costante nei nostri incontri e ha la magia di illuminarli e portarci lontano.
(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)
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