In sala “L’ultima volta che siamo stati bambini” e “Dogman”, su Prime Video “Everybody Loves Diamonds”
Custodire la memoria, soprattutto in tempi fragili e incerti. L’opera prima di Claudio Bisio, “L’ultima volta che siamo stati bambini”, dal romanzo di Fabio Bartolomei, ci consegna una storia di infanzia sognante messa alla prova della crudezza della Seconda guerra mondiale. Un film dolce, marcato dai toni della favola, pensato per ricordare il drammatico rastrellamento del Ghetto di Roma nel suo 80° anniversario (16 ottobre 1943) e per rafforzare la memoria comune sui crimini del nazi-fascismo e l’orrore della Shoah. Un’opera che esce al cinema, con Medusa, in una cornice temporale difficile, che nessuno poteva immagine. Ancora, al cinema con Lucky Red l’intenso “Dogman” firmato dal geniale regista francese Luc Besson, che orchestra un racconto sociale di disperante solitudine, che sembra perdersi in derive fosche alla “Joker” per poi aprirsi invece alla grazia. Eccellente la prova di Caleb Landry Jones. Infine, su Prime Video la serie giallo-poliziesca “Everybody Loves Diamonds” sul clamoroso furto di diamanti ad Anversa nel 2003. La regia è di Gianluca Maria Tavarelli, protagonisti Kim Rossi Stuart, Anna Foglietta e Gian Marco Tognazzi. Il punto Cnvf-Sir.
“L’ultima volta che siamo stati bambini” (Cinema, 12.10)
Il debutto alla regia di Claudio Bisio con “L’ultima volta che siamo stati bambini” è stato suggellato dalle splendide parole della senatrice Liliana Segre. “Caro Claudio – ha scritto – ho molto apprezzato il tuo film perché hai saputo rendere la freschezza e l’innocenza dei bambini con un tratto talmente sensibile da offuscare la tragedia che c’è sullo sfondo”.
Adattamento del romanzo omonimo di Fabio Bartolomei, il film si snoda come un racconto di formazione nel periodo più tragico della storia del XX secolo: la Seconda guerra mondiale, durante la follia nazi-fascista. Un film che si pone sul terreno della custodia della memoria, il ricordo della Shoah, sposando una prospettiva di racconto originale, in linea con il registro di opere come “La vita è bella” (1997), “Train de vie” (1998) e “Jojo Rabbit” (2019): storie che esplorano l’orrore, le stanze del Male, ricorrendo a sguardi puntellati di umorismo gentile e ironia acuta. Il film di Bisio segue questa traiettoria, scegliendo di posizionare la macchina da presa ad altezza di bambino. Protagonisti i giovani Alessio Di Domenicantonio, Vincenzo Sebastiani, Carlotta De Leonardis e Lorenzo McGovern Zaini, affiancati da Marianna Fontana, Federico Cesari e Antonello Fassari.
La storia. Roma, 1943. I preadolescenti Italo, Cosimo, Vanda e Riccardo giocano con innocenza alla guerra mentre sullo sfondo risuona l’allarme per i veri bombardamenti. Quando Riccardo, appartenente a una famiglia ebrea, scompare all’improvviso, gli amici decidono di indagare e scoprono così che è stato messo su un treno per la Germania. Italo, Cosimo e Vanda non si perdono d’animo e si mettono in marcia per andare a liberare l’amico…
“L’ultima volta che siamo stati bambini” rivela chiaramente il suo intento educativo, il suo farsi portatore dei valori della memoria e al contempo di sensibilizzazione verso i pericoli dell’odio e dell’intolleranza, di ieri e di oggi. Il film, che ha potuto contare sull’appoggio della Comunità ebraica di Roma, esce in occasione dell’80° anniversario dei rastrellamenti del Ghetto di Roma, il 16 ottobre del 1943.
Bisio si misura dunque con un genere ormai consolidato, ma di certo sempre scivoloso per la delicatezza del tema e per la scelta del linguaggio da adottare. La sua vis umoristica come attore torna utile qui nel gestire situazioni e tempi comici affidati ai giovani (bravissimi) interpreti. Il film viaggia spedito come un racconto avventuroso brillante, un road-movie che richiama cult alla “Stand by Me” (1986) e “I Goonies” (1983). A un certo punto fa ingresso il realismo della guerra, il Male, e il film vira su note più dolenti.
Ottime le intenzioni dell’opera, dell’autore, che sono da valorizzare e supportare; da un punto di vista stilistico-formale, però, non si può non scorgere qua e là qualche ingenuità di troppo o soluzioni un po’ acerbe, esposte a inciampi didascalici o mielosi. Nell’insieme “L’ultima volta che siamo stati bambini” risulta un’opera valida, soprattutto per una visione in chiave scolastica e familiare. Consigliabile, problematico, per dibattiti.
“Dogman” (Cinema, 12.10)
Un titolo che ha lasciato il segno a Venezia80, anche se non ha ricevuto i riconoscimenti sperati. Parliamo dell’intenso dramma esistenziale “Dogman” firmato dal regista francese Luc Besson, autore di opere di risonanza come “Le Grand Bleu” (1988), “Nikita” (1990), “Léon” (1994) e “Il quinto elemento” (1997). Besson torna dietro alla macchina da presa per raccontare una storia di sofferenza ed emarginazione, disegnando un’istantanea sociale del nostro presente nella direzione in cui si era già mosso Todd Phillips con il suo bellissimo e sfidante “Joker” (2019). A ispirarlo, un fatto di cronaca.
La storia. Stati Uniti oggi, Douglas (Caleb Landry Jones) è un giovane uomo che viene arrestato dalla polizia mentre, vestito da Marylin Monroe, è alla guida di un furgone pieno di cani. Condotto in cella, è interrogato dalla psichiatra Evelyn (Jojo T. Gibbs). Douglas si dimostra subito collaborativo raccontandole la sua storia, a partire dall’infanzia con percosse e violenze psicologiche, richiuso per lungo tempo in una gabbia con diversi cani. Esperienza che lo ha segnato irreparabilmente, facendogli perdere fiducia negli esseri umani ma trovando solido conforto negli amici a quattro zampe…
“Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane”. È la riflessione del poeta Alphonse de Lamartine che apre il film di Luc Besson. L’autore si addentra nella società americana per raccontare una storia di privazioni, violenza e di riscatto. Besson compone un quadro sociale livido e tragico, il racconto di un “ultimo” rifiutato da tutti, in primis dai suoi genitori, che trova conforto solo negli amici animali. Douglas – magnifica l’interpretazione di Caleb Landry Jones – è un povero disgraziato che non appare molto distante dall’Arthur Fleck di “Joker”, che alla fine decideva di abbandonarsi alla violenza per vendicare ingiustizie e delusioni subite. In “Dogman” apparentemente la traiettoria sembra simile, dai riferimenti tematici alla messa in scena, compreso lo stile fosco; il film però prende una piega diversa – nonostante la violenza sia un elemento centrale, in linea con “Nikita” e “Leon” –, delineando l’animo di Douglas non incline a perdersi nei sentieri del Male (a differenza di Arthur Fleck), bensì desideroso di guadagnare la pace, di un abbraccio riconciliante. “Dogman” è scandito anche da un ricorrente simbolismo religioso, da alcuni rimandi cristologici, non lontani dalle suggestioni di “The Whale” e “Gran Torino”. Un film denso, sfidante per temi e violenza, marcato anche da poesia. Complesso, problematico, per dibattiti.
“Everybody Loves Diamonds” (Prime Video, 13.10)
Il furto del secolo arriva su Prime Video. A raccontarlo è la serie “Everybody Loves Diamonds”, 8 episodi diretti da Gianluca Maria Tavarelli (“Il giovane Montalbano”, “Maltese”), con protagonisti Kim Rossi Stuart, Anna Foglietta, Gian Marco Tognazzi, Carlotta Antonelli, Leonardo Lidi, Rupert Everett e Malcom McDowell. Ispirato a una storia vera, la serie è firmata dall’head writer Michele Astori; una produzione Wildside – Gruppo Fremantle e Prime Video.
La storia. Belgio 2003, Leonardo Notarbartolo si finge un gioielliere, esperto in diamanti, per entrare nel Diamond Center di Anversa. Il suo obiettivo è scassinare l’inaccessibile caveau, grazie al supporto di una banda di professionisti. Il colpo del secolo viene messo a segno la notte del 14 febbraio…
La serie corre veloce su un binario comico e giallo-“heist”, richiamando i classici del genere da “I soliti ignoti” (1958) alla trilogia “Ocean’s” (2001-07), sino a recenti titoli come “Lupin” e “La casa di carta” (Netflix). A giudicare dai primi episodi, la serie possiede di certo una buona dinamica e chiaro ritmo – merito anche della regia esperta di Tavarelli –, muovendosi con fluidità tra i vari registri del racconto. Lo stile visivo è curato, forse un po’ patinato, il tono narrativo coinvolgente, attento a solleticare l’attenzione del pubblico rompendo anche la cosiddetta “quarta parete”: Kim Rossi Stuart si rivolge spesso in camera, allo spettatore. Nell’insieme “Everybody Loves Diamonds” presenta una narrazione agile e godibile, una proposta interessante pensata più per l’evasione che per rimettere al centro dell’attenzione un fatto di cronaca. Consigliabile, problematico, per dibattiti.
(Fonte: AgenSIR – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)