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Nola. Giordano Bruno: 423 anni dopo la sua morte (sul rogo) sagaci considerazioni sul processo

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Il processo a Giordano Bruno: una condanna alla libertà di pensiero.

Venerdì 17 febbraio, A.D. 2023, ricorreva l’anniversario della morte di Giordano Bruno: data fortemente simbolica per chi si dedica incessantemente a combattere le tenebre dell’oscurantismo e dell’integralismo.

Una data che mi impegna, come anche per gli anni precedenti, a ravvivare nella coscienza collettiva il ricordo del frate nolano che, nel lontano 17 Febbraio 1600, a Roma, in Campo de’ Fiori, fu fatto bruciare vivo.

Quel giorno un uomo dovette morire, condannato da altri uomini, in nome di leggi che essi stessi avevano univocamente promulgato, perché consideravano crimine gravissimo quello che dovrebbe essere un Diritto di ogni Uomo: poter credere liberamente a ciò che pensa e non dover pensare, per forza, a ciò che altri vogliono che egli creda. Per questo delitto Giordano Bruno venne ucciso; e in un modo atroce: bruciato vivo.

Diversamente dal passato, quella che oggi mi accingo a narrare non vuole essere un’esposizione delle vicende che concernono la vita di Giordano Bruno. Un’esistenza, volta alla ricerca di una enigmatica, antica sapienza perduta; una vita, peraltro, interessante e fin troppo movimentata e avventurosa, contrastata da difficoltà d’ogni genere, fino a concludersi a Campo de’ Fiori, con la tragica morte sul rogo, rendendo così la sua testimonianza suprema di coerenza e libertà.

Da allora, studiosi, storici, filosofi, uomini di cultura si affrontano per individuare le colpe della vittima e quelle dei giudici; da allora indagini erudite e polemiche si intrecciano, sempre con l’intento di arruolare la prestigiosa figura del martire nell’uno o nell’altro schieramento. Il suo processo durato otto anni e conclusosi con la condanna a morte inflittagli per non aver rinnegato la verità in cui credeva, ci serve per illustrare emblematicamente il radicale contrasto tra “autorità” e “libertà”, che è una situazione eterna della condizione umana.

Il processo di revisione critica, avvenuto nell’ottobre 1992, all’interno della Chiesa Cattolica nei confronti dei famigerati comportamenti inquisitoriali che produssero la condanna di Galileo Galilei può, forse, evidenziare una certa buona volontà delle gerarchie ecclesiastiche nel riconoscere, dopo 360 anni, i propri errori passati ed, al contempo, il chiaro imbarazzo di chi si vede costretto a difendere posizioni ormai anacronistiche ed irrevocabilmente condannate dalla storia, ma sicuramente non può nascondere il profondo ed indissolubile legame che unisce tali eccessi al dogmatismo intransigente di una fede religiosa, qual’è quella cattolica, convinta di detenere il monopolio della verità assoluta e rivelata.

Infatti, mentre riguardo al processo Galileo la Chiesa di Roma, con Giovanni Paolo II, ha vacillato e sentito il peso di tutta la vergogna che deve ricoprire l’ignoranza di una dottrina sconfitta dalla ricerca scientifica, rispetto al processo Giordano Bruno tuttora tace, fatta eccezione delle parole del cardinale Sodano nel febbraio 2000, di cui accennerò alla fine di questo scritto, e tenta ancora di far dimenticare il rogo sul quale il filosofo di Nola fu bruciato vivo il 17 febbraio 1600 in Campo de’ Fiori a Roma, per ordine del successore di Pietro, del rappresentante di Cristo in terra, di quel Clemente (di nome e non di fatto) VIII.

La doppia verità, quella religiosa e quella scientifica, servì a salvare Galileo dal rogo all’epoca del processo e serve oggi alla Chiesa di Roma, al di là delle sofisticate ricerche e congetture di Pietro Redondi (P. Redondi, Galileo eretico, Einaudi, Torino1983) intorno alla vera accusa occultamente mossa dal Collegio romano dei Gesuiti a Galileo, a ritrarre la propria posizione senza minimamente intaccare il proprio dogmatico e fanatico credo. (Secondo il Redondi, per meglio chiarire, la vera ragione della condanna di Galileo non sarebbe stato il copernicanesimo, ma la sua “eresia” eucaristica. Tesi, tuttavia, che non è stata accolta dagli studiosi ed alcuni dei suoi argomenti centrali sono stati smentiti).

Ben diversa, invece,  è la situazione nei confronti di Giordano Bruno, il quale volle entrare nel merito della verità filosofica e religiosa per discutere il magistero stesso della Chiesa.

Galileo si occupava di scienza, Bruno parlava di temi religiosi, intendendo per religione la ricerca intorno ai grandi interrogativi esistenziali dell’uomo: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo?

Il piemontese Luigi Firpo, filosofo del diritto e della morale, affronta con grande rigore storico e fuori dalle contingenti polemiche politiche il processo a Giordano Bruno.

Tra il 1948 ed il 1949 egli pubblicò in due puntate, sulla Rivista Storica Italiana, un saggio intitolato “Il processo di Giordano Bruno”; tale saggio venne poi raccolto in un libro edito nel 1949 dalle Edizioni Scientifiche Italiane di Napoli ed ora, dopo la scomparsa dell’Autore avvenuta il 2 marzo 1989, è disponibile un nuova edizione aggiornata di questo libro, del 2005, curata da Diego Quaglioni, ad opera della Salerno Editrice di Roma.

Il libro attualmente in distribuzione si apre con un’articolata introduzione di Quaglioni, che inquadra con precisione sia la ricerca dell’Autore, sia le principali problematiche storiche e storiografiche relative al processo in esame, e si chiude con una fedele e voluminosa raccolta di tutta la documentazione processuale ad oggi disponibile.

Racchiuso tra questi due estremi è collocato il libro di Firpo, che rende conto delle vicissitudini di Bruno tra l’agosto 1591, anno del suo rientro in Italia, ed il 1600, data fatale della sua esecuzione capitale.

L’Autore sottopone ad esame la denunzia, anzi, le denunzie presentate da Giovanni Zuane Mocenigo all’inquisitore di Venezia Giovan Gabriele di Saluzzo contro Giordano Bruno (maggio 1592); si sofferma con attenzione sulle prime testimonianze e sulla fase veneziana del processo, che termina con la concessione da parte del Senato di Venezia, su richiesta del Sommo Pontefice, dell’estradizione del Nolano e la conseguente traduzione del medesimo a Roma (febbraio 1593); affronta il tema della seconda denunzia per eresia mossa al Bruno da un ex compagno di cella del periodo di detenzione veneziana, il cappuccino Celestino da Verona (autunno 1593), che verrà poi bruciato vivo in Campo de’ Fiori cinque mesi prima del frate di Nola. Firpo, quindi, analizza le varie fasi del processo inquisitoriale romano, compresa la ricerca dei testi scritti dal filosofo, quali elementi di prova a carico e la censura dei medesimi, sino a concludere la sua fatica con la sentenza di condanna del Bruno, che con tenace decisione si era rifiutato di riconoscersi eretico, sia di fronte alle otto censure (le contestazioni scritte alle sue opinioni considerate erronee) sottopostegli dal cardinale Roberto Bellarmino, sia di fronte all’estremo tentativo, di ricevere la sua abiura, compiuto dai suoi stessi confratelli domenicani: il generale Ippolito Maria Beccaria ed il vicario Paolo Isaresi.

Tra i personaggi del processo spicca per bassezza morale ed ottusità intellettuale, come sostiene Firpo stesso, la figura del patrizio veneziano Giovanni Mocenigo, il quale, dopo aver invitato presso di sé il Bruno per essere erudito nell’arte della memoria, ma in realtà maggiormente interessato a tanto mirabolanti, quanto inesistenti segreti di natura magica, deluso e stizzito lo denuncia all’Inquisizione.

Giordano Bruno viene accusato:

– di avere opinioni avverse alla Santa Fede e di aver tenuto discorsi contrari ad essa ef ai suoi ministri;

– di avere opinioni erronee sulla Trinità, la divinità di Cristo e l’incarnazione;

– di avere opinioni erronee su Cristo;

– di avere, ancora, opinioni erronee sulla transustanziazione e sulla Messa;

– di sostenere l’esistenza di molteplici mondi e la loro eternità;

– di credere alla metempsicosi e alla trasmigrazione dell’anima umana nei bruti;

– di occuparsi d’arte divinatoria e magica;

– di non credere alla verginità della Madonna.

Queste, le più gravi, tra i 20 capi d’accusa che il Mocenigo mise per iscritto nella sua denuncia contro il Bruno, che consegnò alla Santa Inquisizione in Venezia, nella persona di Giovan Gabriele di Saluzzo.

Appare subito evidente che i capi d’accusa rivolti al Nolano nella prima denunzia da lui subita (ma la situazione non cambia per le successive denunzie ed accuse, che sostanzialmente ripercorreranno i medesimi argomenti) riguardano tutti indistintamente un tipo di reato che oggi verrebbe definito d’opinione.

Ossia, l’Inquisizione della Chiesa Cattolica muove contro il filosofo non per atti da lui compiuti, ma per le idee espresse e cercherà per tutta la durata del processo di indurlo al pentimento ed alla ritrattazione.

Successivamente, un altro personaggio ignobile compare sulla scena processuale, il cappuccino Celestino da Verona, il quale convinto erroneamente di essere stato danneggiato nella sua situazione giudiziaria da alcune e non meglio precisate dichiarazioni del Bruno, presenta contro quest’ultimo una ulteriore denunzia di eresia e di blasfemia.

Di fronte a questi squallidi personaggi, ed intenti, sorge subito spontanea una riflessione: un processo fondato sulla delazione e sul pentimento di soggetti coinvolti a qualche titolo nella vicenda giudiziaria stessa, come è appunto il processo inquisitoriale in esame, non solo mette seriamente in pericolo i diritti dell’imputato, ma non fornisce neppure sufficienti garanzie intorno alla ricerca di una verità fattuale e non preconcetta.

Tale riflessione potrebbe tranquillamente essere ripetuta per molti processi a noi contemporanei, condotti dalla magistratura inquirente, che ha ereditato il ruolo e lo spirito della magistratura inquisitoriale.

Il processo contro Giordano Bruno, dunque, non riguardò solo le opinioni del filosofo, ma si fondò anche su un sistema probatorio profondamente inquinato dalla violenza di lunghe detenzioni preventive, dall’intimidazione di continui tentativi di costringere il detenuto al pentimento ed alla confessione, e dal sospetto legato alla delazione anche anonima.

Nonostante tutto ciò, il modello inquisitoriale non riuscì a produrre una qualche sentenza se non dopo quasi dieci anni di detenzione dell’indiziato.

E di indizio in senso tecnico si trattava, infatti, anche per le leggi dell’epoca, tutto il processo fu costruito e tenuto in piedi sulla base di semplici  apparenze e solo il rifiuto opposto dall’imputato a ritrattare l’elenco degli otto capi d’accusa, estratti dagli atti del processo dal gesuita Bellarmino, produsse la sua condanna.

In breve, l’Inquisizione era prevalentemente interessata al ravvedimento spirituale del Bruno e quindi cercava una sua piena confessione con relativo pentimento.

Di fronte al diniego del filosofo essa trasportò sul piano giudiziario la sua condanna di ordine morale e religioso, ma fece ciò non senza ipocrisia.

Ipocrisia che si legge, con raccapriccio, nella copia parziale della sentenza destinata al Governatore di Roma (8 febbraio 1600).

In essa il Tribunale ecclesiastico affida Giordano Bruno al braccio secolare affinché venga punito, con la raccomandazione, però, di mitigare il rigore della legge e di evitare al condannato la pena di morte o la mutilazione.

Era a tutti noto, allora come ora, che la consegna al braccio secolare, con una sentenza di condanna per eresia come quella comminata al Bruno, comportava automaticamente il rogo.

A poco vale la riflessione di Firpo secondo la quale la Chiesa Cattolica avrebbe applicato, senza preconcetta acredine, nei confronti dell’imputato la normativa penale e processuale vigente.

E’ proprio tale normativa in quanto vigente ed espressione di violenza contro l’individuo, di assolutismo politico e di intolleranza nei confronti delle idee, che suona come irrevocabile condanna della Chiesa romana.

Il processo e la relativa documentazione ci fornisce un interessante quadro sociologico della realtà carceraria dell’epoca, ma, soprattutto, delle dinamiche intersoggettive intercorrenti tra i vari personaggi: denunziante ed accusato, tribunale ed imputato, testimoni, ecc. In particolare, emerge da una dinamica tipica dei processi penali: quella relativa alla competenza di giudizio.

L’Inquisizione veneziana sosteneva la propria competenza giurisdizionale, ma quella romana pretendeva l’estradizione dell’imputato in quanto pubblico e convinto eresiarca, suddito napoletano, religioso regolare e, soprattutto, già inquisito  in Napoli e Roma. Il Nunzio Apostolico Ludovico Taverna motivò con tali argomentazioni il desiderio di Papa Clemente VIII di processare il Bruno a Roma. Tuttavia, come scrive Firpo: “ quello che … faceva difetto nel discorso del Nunzio era la sincerità, poiché il Bruno non era stato per nulla “convinto” di eresia dall’unico teste e poteva semmai dirsi parzialmente confesso; inoltre i giovanili processi di Napoli e di Roma riguardavano l’Ordine domenicano e non già l’Inquisizione …” (L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, Salerno Editrice, Roma 1993, p.38).

In ogni caso, non fu facile sottrarre a Venezia la giurisdizione: era una questione di prestigio e di sovranità politica della Serenissima.

Infatti, mentre in un primo tempo il diniego fu deciso ed apparentemente irremovibile, successivamente e solo dopo aver riconosciuto l’eccezionalità del caso, che in nulla intaccava l’autonomia di Venezia, si convenne di concedere quanto richiesto da “Sua Santità come segno della continuata prontezza della Repubblica in farle cosa grata”(L. Firpo, Il Processo cit., p.212).

Le ragioni di Stato erano salve sia sotto il profilo della sovranità della giurisdizione veneta che per i buoni rapporti con la Santa Sede, ma i diritti dell’imputato erano stati decisamente dimenticati e, comunque, subordinati a ben più rilevanti interessi di natura politica. E’ possibile interrogarsi intorno alle motivazioni che resero il Papa tanto ansioso di condurre la causa di Giordano Bruno sotto il proprio potere? Del resto, il filosofo Nolano stesso si illudeva di poter ragionare, su un piano di parità, con il Pontefice sui principali temi di filosofia, di teologia e di religione. Forse, proprio questa illusione di poter avere un dialogo sincero con il massimo vertice della Chiesa Cattolica, condusse Bruno in Italia dal suo lungo peregrinare nei vari Stati europei.

Sempre nel citato Processo, a p. 10, Firpo riporta : “Nella propria filosofia Giordano Bruno era venuto riconoscendo sempre più distintamente un valore etico-sociale, una significazione di annunzio evangelico e di universale rigenerazione; l’insegnamento diveniva predicazione e apostolato, e la sua opera di rinnovatore della scienza  – tollerata, se non applaudita, in Germania –  si espandeva in un’azione di riforma religiosa, che le Chiese protestanti mostravano di reprimere con intransigenza non meno rigorosa di quella che lo stesso impulso avrebbe trovato in un paese cattolico. Quella che il Bruno propugna è una religione intellettualistica, naturalistica, semplificata, spoglia di dogmatismi, al fine di sgombrare il terreno da ogni appiglio alle disquisizioni ed alle eresie. Un deismo fondato sulla carità concorde degli uomini che più nulla ha di comune con la dottrina rivelata del cristianesimo”.

Come poteva sperare Bruno nella benevolenza e nell’onestà intellettuale di un Pontefice e di una Chiesa ormai completamente immersa negli interessi politici terreni, piuttosto che nella ricerca religiosa del trascendente?

La domanda non ha facile risposta, entrano sicuramente in gioco le illusioni e la presunzione personale del filosofo, ma soprattutto appare prepotentemente quella profonda e indomabile fede del Bruno nella universalità del Divino. Quella stessa fede che gli fece gridare contro i suoi giudici la famosa frase, ormai dimostratasi non leggendaria, ma storica : “ Forse con maggior timore pronunciate contro di me la sentenza, di quanto ne provi io nel riceverla”.

Giordano Bruno non si reputava eretico; egli sapeva di aver cercato con onestà intellettuale la verità religiosa, credeva in una Divinità panteistica che permea tutto e tutti, lui compreso, e non riusciva a comprendere per quale motivo la Chiesa Cattolica non si comportasse con la medesima onestà ed impedisse la libera ricerca di Dio.

“Si genera in lui la persuasione di essere vittima di una congiura di teologi che vogliono far passare per errore quello che tale non è. O almeno mai fu definito, ed egli sente che l’opinione sua vale la loro e non vuole accettare la sentenza; nega perciò di aver mai sostenuto eresie, non riferendosi insensatamente alla massa delle accuse del processo, ma al ristretto elenco di tesi filosofiche condannate, e rifiuta di rinnegarle non per ostinazione assoluta, ma per non soggiacere a quello che gli pare un sopruso; si appella con gli ultimi memoriali al Papa. Sperando che Clemente VIII possa intervenire, giudice imparziale, in una disputa nella quale Giordano vede se stesso e i membri del tribunale in qualità di contendenti, eguali affatto per autorità e dignità”(L. Firpo, Il Processo cit., pp. 110-111).

Il Nolano si pone come paladino della libera ricerca individuale in materia filosofico-religiosa e spera nel Papa come vero e imparziale garante di Dio in terra, come sacerdote di una religione senza interessi terreni.

Mai errore fu più fatale ad un uomo!

Egli non si avvide di non avere di fronte una religione con interessi puramente trascendenti, ma un vero e proprio Stato votato all’egemonia politica sul mondo.

Il tribunale, nel quale discuteva la propria posizione filosofica, il proprio credo religioso, riceveva contestazioni, proposizioni da abiurare ed a sua volta presentava memoriali, rifiutava pentimenti e ritrattazioni, non era né l’università di Oxford, e nemmeno quella di Wittenberg, ma semplicemente l’Inquisizione, ossia uno strumento mondano di controllo, condizionamento e repressione dei sudditi e del loro pensiero.

Bruno viene macinato lentamente, nell’arco di quasi dieci anni, da questa macchina mostruosa presieduta dal Papa.

Non solo Clemente VIII non è garante di libertà, ma, al contrario, è il capo politico di uno Stato e di un partito votato al mantenimento della realtà sociale esistente all’epoca nella penisola italiana e nel mondo cattolico; è il custode di una ortodossia religiosa che non intende lasciare nessuno spazio alla libera ricerca individuale; è il rappresentante di una casta sacerdotale che si è organizzata e istituzionalizzata per meglio tutelare i propri privilegi ed il proprio potere su altri uomini e sulle loro idee.

In questo quadro risulta chiaro l’errore di Bruno, non era un errore di natura teologica, ma di natura socio-politica. Egli crede di avere di fronte una religione, ed invece ha dinanzi a sé uno Stato.

n breve, Bruno si chiede:

– Perché dichiararsi eretico, se non si riconosce alla religione istituzionalizzata il diritto di definire un vero ortodosso?

– Perché sottomettersi a chi non possiede nessun diritto superiore a quello proprio di qualsiasi uomo, di definizione della verità?

– Perché pentirsi se l’errore è opinabile?

Il Nolano, conseguentemente, contesta alla Chiesa il potere assoluto di definire l’errore filosofico religioso e quindi la legittimità di formulare una qualsiasi condanna.

E Bruno avrebbe avuto ragione, se effettivamente si fosse trovato di fronte a una vera religione alla ricerca di Dio e tollerante delle ricerche esistenziali di tutti i figli di questo Dio, ma per sua sfortuna egli invece cadde nella trappola tesa da uno Stato teocratico, organizzato e agguerrito per conseguire l’egemonia sul mondo, che, come ogni vero Stato autoritario, utilizza il proprio ordinamento giuridico ed i propri tribunali per legittimare gli atti di forza che compie.

La legittimità della condanna del Bruno, dunque, proviene non dalla presunta verità, detenuta da una qualche religione ed, in particolare, da quella cattolica, ma dall’ordinamento giuridico intollerante di una Chiesa-Stato, quella romana, che intese imporre il proprio credo ideologico anche con la forza.

Firpo riconosce, come si è già detto, a questa Chiesa-Stato l’applicazione, nel processo a Bruno, dell’ordinamento giuridico vigente all’epoca nei procedimenti inquisitoriali. In tal modo sembra voler legittimare formalmente l’operato di tale tribunale.

Ma ciò che è in discussione nel nostro caso non è la legittimità giuridica di un provvedimento statale, bensì la legittimità religiosa di un comportamento contro la libertà dell’uomo e delle sue idee. Forse, e ne dubito, la Chiesa può essere assolta, in quanto Stato, dall’aver ucciso Giordano Bruno, ma sicuramente dovrà essere condannata come religione per questo delitto.

Il timore che Bruno legge nei volti dei suoi giudici mentre pronunziano la sua sentenza di morte probabilmente non è politico, la Chiesa era allora trionfante e potente, ma soprattutto religioso.

Non poteva sfuggire a quei giudici che il loro potere di condanna era meramente terreno e che il prevalere della cristallizzazione istituzionale e del fine politico della Chiesa Cattolica, non avrebbe potuto produrre altro che la fine del sentimento religioso, la fine appunto, del Cattolicesimo come religione.

Forse, una religione rivelata può anche presumere di detenere la verità, ma certamente tale possesso non può certo giustificare la soppressione fisica di colui che a sua volta cerca la propria strada verso la divinità.

Non si tratta, in questo caso, di semplice carenza di tolleranza laica, ma di vera e propria contraddizione sul piano religioso.

La scintilla divina che Giordano Bruno presuppone esistente in ciascuno di noi, da quei giudici viene negata e Dio ridotto all’idolo, al totem legittimante i comportamenti dello Stato-Chiesa. Bruno non teme la morte sul rogo perché crede “che se ne sarebbe la sua anima ascesa con quei fumo a ricongiungersi all’anima universale” (L. Firpo, Il Processo cit., p.104).

Quei giudici, quella Chiesa, invece, temono la morte, poiché non credono né in un Dio universale, né nell’anima individuale, espressione di questo Dio; temono la morte perché sono profondamente atei e sanno che la loro sentenza manifesta, svela al mondo questo loro ateismo, questa loro profonda, radicata ed intollerante sfiducia nella divinità e nell’uomo libero.

Per concludere, concordo con Firpo quando dice che “Bruno rimane vittima di una intolleranza”. Ed infatti, quattrocento anni dopo quel rogo, nel febbraio 2000, il Segretario di Stato Vaticano, Angelo Sodano, ha parlato di “triste episodio della storia cristiana moderna”, di Bruno ha detto: “sembra acquisito che il cammino del suo pensiero, svoltosi nel contesto di un’esistenza piuttosto movimentata e sullo sfondo di una cristianità purtroppo divisa, lo abbia condotto a scelte intellettuali che progressivamente si rivelarono, su alcuni punti decisivi, incompatibili con la dottrina cristiana…. Resta il fatto che i membri del Tribunale dell’inquisizione lo processarono con i metodi di coazione allora comuni, pronunciando un verdetto che, in conformità al diritto dell’epoca, fu inevitabilmente foriero di una morte atroce. Non sta a noi esprimere giudizi sulla coscienza di quanti furono implicati in questa vicenda….. Oggettivamente, tuttavia, alcuni aspetti di quelle procedure e, in particolare, il loro esito violento per mano del potere civile non possono non costituire oggi per la Chiesa – in questo come in tutti gli analoghi casi – un motivo di profondo rammarico. Il Concilio ci ha opportunamente ricordato che la verità ‘non si impone che in forza della verità stessa’ (Dignitatis Humanae 1). Essa va perciò testimoniata nell’assoluto rispetto della coscienza e della dignità della persona”. Parole, che seppur tentano timidamente di rivelare l’errore commesso dalla Chiesa, non solo non riconoscono pienamente le violenze adottate e culminate con la morte cruenta, ma certamente non bastano, da sole, a rendere giustizia.

Il rogo allestito in Campo de’ Fiori, dove fu fatto salire ed arso vivo il filosofo dell’universo infinito, brucia ancora!

Il processo a cui fu sottoposto Giordano Bruno dovrebbe farci riflettere. Infatti, ancora oggi molti processi giudiziari si fondano sulla delazione e sul pentimento; non solo mettono in pericolo, come già detto, i diritti dell’imputato, ma non sono in grado di fornire una valida garanzia per stabilire una verità di fatto e non precostituita. Processi espletati da una magistratura inquirente che non si discosta molto, per certi versi, da quella a cui fu sottoposto Bruno. Basti pensare alle odierne violenze costituite dalle lunghe detenzioni preventive, dalle delazioni e dalle intimidazioni a cui talvolta vengono sottoposti gli imputati. Dunque, “ nihil sub sole novum”.

L’attualità di Giordano Bruno non va, però, solamente circoscritta al suo processo, oppure a convenzionali ricordi circa la rivendicazione dei principi di libertà e del libero pensiero contro ogni forma di oppressione, di dogmatismo e di intolleranza – e sarebbe già molto – , ma va riferita al pensiero moderno nel suo complesso, alle attuali concezioni dell’uomo e dell’universo, al perenne rapporto tra umano e divino.

(Guglielmo di Burra – Comunicato Stampa – Elaborato – Archiviato in #TeleradioNews © Diritti riservati all’autore)

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