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Attualità

IL DIAVOLO E L’ACQUA SANTA

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VLADIMIR PUTIN

Putin di Giuliano Ferrara Il Foglio

La più grande catastrofe russa del XXI secolo si è annunciata con la guerra europea in Ucraina, partita all’inizio del 2022, e si insinua come un’ombra gigantesca sul minuscolo e penoso Natale di Vladimir Putin. Un mese dopo l’invasione, Bucha. Poi Mariupol, assalto al teatro dei rifugiati. Un anno dopo, il buio e il freddo oltre il confine. E invece niente. Ora su quegli sfondi bianchi che sanno di potere rifatto, ridipinto, tra quegli stucchi e trumeau che arredano grottesche distanze in vasti interni solitari, lo statista in fuga da sé stesso usa la parola fino a ieri vietata, “guerra”, e affetta fraternità verso il popolo ucraino, e parla di pace, di negoziato, con mezzo mondo che rifiuta il suo gas e il suo petrolio e l’altro mezzo che glieli compra a metà prezzo. Il suo esercito della disperazione imperiale, i lupi dello zar, è umiliato dalla controffensiva, dall’unità armata dell’occidente euroatlantico a difesa dell’indipendenza di Kiyv e della sicurezza europea e mondiale, che lui voleva mangiarsi in un solo boccone e in un paio di settimane dopo le imprese cecena, georgiana, siriana, dopo il Donbas e la Crimea. I suoi bastioni diplomatici e commerciali in occidente sono caduti tutti, la svolta strategica della Germania si è rivelata intrattabile, la resistenza dei polacchi è una fortezza brulicante di rifugiati e di ponti aerei, il fallimento è indicato dall’isolamento e dall’imbarazzo dell’alleato “eterno” cinese, in prospettiva il nuovo padrone del suo paese.

L’inverno russo dei grandi romanzi e della grande storia può sempre riservare sorprese, ma la posizione di chi è invaso e si batte per l’esistenza non è la sua, è quella del buffone, del drogato e ebreo Zelensky e dell’universale recalcitrare al giogo degli ucraini, donne, uomini, ragazzi, vecchi, bambini trucidati per un progetto di imperialismo paranoide, dichiarato da una personalità malata e dai sermoni di un prete corrotto. Definire la vittoria di questa ambizione sbagliata, tra recessione e repressione del dissenso russo, è sempre più difficile. Putin è uscito dalla configurazione di leadership in senso kissingeriano, uomo attento all’equilibrio e alla sicurezza reciproca, dedito all’accumulazione e alla riforma, desinato immancabilmente a durare, ne è uscito definitivamente. Un anno di guerra spietata e insensata ha fatto di lui un bullo globale, che fa paura anche ai pochi amici che gli sono rimasti. Ha tenuto un paio di kermesse nazionaliste, con la solita cartolina precetto per le grandi folle, e sotto Natale deve arrendersi a un comportamento erratico, inspiegabile e non spiegato, cancellare le date, le dirette, le conferenze stampa, i discorsi alla Duma di Mosca.

Ha annesso territori ma subito dopo ha dovuto guadare il Dnepr verso est, sta ripittando lo scenario di morte e distruzione di Mariupol dietro lo schermo di menzogna della Grande Cultura Russa, vanta l’impresa del Mar d’Azov che nemmeno Caterina la Grande, continua a infliggere tormento e sofferenza, ma chiunque lo conosca, chiunque abbia letto il suo straordinario ritratto scritto da Giuliano Da Empoli, un vero romanzo russo, sa che puoi far piovere un grande arsenale missilistico su un popolo “fraterno” che ti odierà per generazioni, in una guerra che hai scelto e preparato per anni, puoi minacciare la deterrenza atomica e ritirare la minaccia e minacciare ancora, e tuttavia ti è preclusa la prospettiva di festeggiare una qualsiasi vittoria. Entrando nella condizione dello stragista seriale, dell’offensore non provocato, del domatore senza denti della bestia libertaria e indipendentista armata dalle democrazie di tutto il mondo, Putin ha sacrificato la cosa cui teneva forse di più, l’intelligenza del potere, l’intelligence, la capacità di sapere e anticipare i fatti per determinare il corso della storia. È stato un crimine e molto più di un crimine, è stato un colossale e fatale errore politico. Triste Natale per una vecchia spia che sta distruggendo un’antica e grande nazione e un dispotismo di stato che sembrava un meccanismo inscalfibile, eterno.

«Ben presto mi troverò di fronte
al giudice ultimo della mia vita»

Benedetto XVI Ratzinger di Massimo Franco Corriere della Sera

Sembra una notizia che filtra da un altro mondo, sideralmente remoto da quello reale. E in qualche modo lo è. Forse perché quel Monastero nascosto nei giardini vaticani, dove Benedetto XVI si è ritirato da quasi dieci anni, è ad appena tre minuti di auto da Porta Sant’Anna, quella da cui si entra in Vaticano per andare alla farmacia, allo Ior, all’Archivio segreto; ma arrivarci significa compiere un viaggio mentale che fa perdere la nozione dello spazio e del tempo, tra viali deserti, altari, fontane, cactus enormi e improbabili, che spuntano tra le garitte di gendarmi vaticani in allerta davanti a qualunque viso sconosciuto. Le condizioni del papa emerito Benedetto si sono aggravate, Francesco ha chiesto di pregare per lui, e lo è anche andato a trovare: sono queste le notizie convulse di ieri.Ma Joseph Ratzinger è ancora, disperatamente, vivo. Anche se con i suoi quasi 96 anni potrebbe spegnersi da un momento all’altro. Anche se pensava di morire sei mesi dopo la rinuncia del febbraio del 2013, e il fatto di essere sopravvissuto così a lungo ha alimentato il mistero sulle vere ragioni delle sue «dimissioni» epocali. Nonostante la lealtà e il rispetto reciproco tra predecessore e successore, la sua longevità ha nutrito per quasi un decennio la leggenda destabilizzante dei «due Papi»: benché Benedetto abbia fatto di tutto per ridimensionarla e smentirla. D’altronde, Ratzinger è stato «emerito» più a lungo che «regnante»: eletto nel 2005, ha lasciato nel 2013. Otto anni contro quasi dieci. Ad ogni occasione ha cercato di ribadire che «il Papa è uno solo». Ma i tradizionalisti che pure lo hanno sempre considerato una propria icona non si sono rassegnati.

Si è dato corpo al fantasma, se non alla realtà di «due Chiese». Benedetto è stato strumentalizzato di volta in volta da anti bergogliani e bergogliani, per motivi opposti. E non è stato mai chiaro fino in fondo quanto il pontificato emerito abbia influenzato e condizionato quello del papa argentino; e quanto il Monastero Mater Ecclesiae, la «Madre della Chiesa», abbia segnato alcune mosse di Bergoglio e della sua corte di Casa Santa Marta, l’hotel dentro le mura vaticane dove vive dal giorno dell’elezione. Una tesi sostiene che finché le riforme di Francesco sono andate avanti spedite, la sintonia con Benedetto è stata totale. Ma quando si è capito che arrancavano, che apparivano troppo visionarie, è cresciuta la tentazione di vedere nella filiera dei nostalgici di Ratzinger i frenatori, e nel Monastero una sorta di contropotere allo stato latente.

Negli ultimi anni si è assistito a uno scontro neanche troppo larvato tra le frange più estreme dei «tifosi» dell’uno e dell’altro. Contro, va sottolineato, la volontà di Francesco e Benedetto. È un conflitto che negli ultimi mesi si è in qualche maniera quietato, o almeno diplomatizzato. Forse perché la voce del papa emerito si è affievolita fino a spegnersi: da alcuni mesi non riesce più a articolare le parole. O magari perché il rischio di una rottura troppo vistosa nella Chiesa cattolica ha suggerito una tregua di fatto tra fazioni. Ma difficilmente la dicotomia verrà archiviata o si spegnerà quando Benedetto morirà. Anzi, per paradosso potrebbe ravvivarsi, sommandosi alle voci di dimissioni dello stesso Francesco, che emergono a intermittenza per bocca dello stesso papa argentino.

Da mesi, ormai, la domanda che si insinua nelle file vaticane non è se ma quando e come Francesco potrebbe rinunciare, una volta scomparso il papa emerito: perché due papi dimissionari sarebbero troppo, e una delle ragioni che finora hanno impedito una nuova scelta traumatica risiede proprio nel fatto che c’è ancora «l’uomo del Monastero». In questi anni è stata una figura ingombrante non solo per le sue rare prese di posizione ma per i suoi silenzi. In fondo, il solo fatto di esistere rappresentava una sorta di assenza-presenza che il mondo ecclesiastico ha sentito molto più dell’opinione pubblica. «Il Monastero» è diventato un modo per definire uno stile di papato complementare o perfino, nell’uso strumentale che ne hanno fatto gli avversari, alternativo a quello bergogliano: con Benedetto dedito a una vita monastica, assistito e protetto dalla sua «famiglia pontificia» composta dall’arcivescovo e prefetto Georg Gaenswein e dalle quattro «memores», le donne consacrate di Comunione e liberazione che hanno vissuto con loro in quell’edificio.

Non è chiaro se l’allarme che ieri mattina si è propagato dal suo eremo giù nei palazzi vaticani, e poi in tutta Italia, rimbalzando nel mondo, sia solo l’eco ricorrente di altri annunci funesti, smentiti dall’attaccamento alla vita di Joseph Ratzinger. Oppure se sia il presagio che l’esistenza di questo pontefice e fine teologo è davvero agli sgoccioli; che il suo «pellegrinaggio verso Casa», come scrisse in una lettera al Corriere nel febbraio del 2018, sta veramente arrivando al punto di non ritorno. Le voci che arrivano dal Vaticano sono contrastanti, ma le parole pronunciate ieri in udienza da Jorge Mario Bergoglio hanno conferito drammaticità alle voci sullo stato di salute di Benedetto. D’altronde, il silenzio intorno e dentro il Monastero è diventato pesante da mesi, ormai.

Si sapeva da tempo che Benedetto non riusciva più a parlare, a dispetto di una stupefacente lucidità. Le visite si erano diradate, come i suoi articoli di teologia. Si è creata una barriera invisibile di riserbo e di laconicità, aggiuntasi a quella che già circondava la costruzione di mattoni chiari protetta da un cancello di ferro elettrico schermato, e affiancata da un piccolo orto. Foto col contagocce, seduto in poltrona nel salotto al primo piano: l’ultima il 1° dicembre scorso. Frammenti di notizie arrivate da visitatori obbligati alla riservatezza. E una coltre di mistero così fitta che non si capiva dove finisse la volontà di isolare il papa emerito nel suo mondo rarefatto, e cominciasse la sua volontà di autoisolarsi. Di certo, senza di lui il Monastero diventerà altro. Eppure, si è impresso nella memoria collettiva come il luogo-simbolo di una delle stagioni più sconcertanti e insieme intriganti di una Chiesa in bilico: messa alla prova non dai suoi nemici ma dai suoi papi.

Massimo Franco

Ratzinger di Silvia Truzzi Il Fatto Quotidiano

“Amico” è la prima parola che Enzo Bianchi, fondatore e a lungo priore della Comunità di Bose, pronuncia quando gli chiediamo di papa Ratzinger, le cui condizioni di salute si sono aggravate. “Ci siamo conosciuti nel 1976, durante un seminario teologico. Durante il suo pontificato mi ha nominato esperto in due sinodi, più volte mi ha ricevuto in udienza. È stato uno dei papi più importanti dal punto di vista teologico. Ricordo che intervenne come esperto al Concilio Vaticano II e già allora emergeva nel mondo come teologo. Tutta la sua vita è stata nel segno dello studio, incessante e rigoroso. L’enciclica Dio è amore è un testo eterno”.

Benedetto XVI nel 2013 prese una decisione storica, dimettendosi.

Altri papi prima di lui avevano rinunciato, non solo il Celestino V che Dante ha reso celebre nella Commedia. Credo che un tratto umano poco compreso di Papa Ratzinger sia l’umiltà: quando ha capito che con le sue forze non era più in grado di governare la complessità della Chiesa e che aveva di fronte tempi che si annunciavano nuovi a cui non si sentiva preparato, allora ha rinunciato. La scelta non è dipesa né dal timore, né dagli scandali come spesso si è detto: sentiva di non essere all’altezza per l’età e le condizioni di salute. Il suo è stato un gesto di grande generosità verso la Chiesa, un gesto che definisce la sua grandezza di uomo e di pontefice. Con le dimissioni ha liberato il papato da un eccesso di sacralità, rendendolo un servizio umano, necessario per volere di Cristo, ma a cui si può rinunciare se le forze vengono meno.

Quali erano gli aspetti di modernità verso i quali non si sentiva attrezzato?

La società attraversa una rivoluzione antropologica e culturale che impone al cristianesimo di trovare una collocazione nuova, riformulando non solo il linguaggio esteriore ma anche la fede. Allora lui aveva 85 anni e una formazione tale che non gli consentiva di capire e affrontare i nuovi problemi posti da un contesto in rapidissima evoluzione. Non solo quelli dell’uomo, ma anche quelli interni alla Chiesa, alla sua organizzazione. Penso per esempio al tema dell’ordinazione delle donne, che prima o poi andrà affrontato da una persona che non porti il peso di un mondo passato.

Si è a lungo discusso delle differenze tra Benedetto XVI e Francesco: sono davvero tanto diversi?

In realtà papa Francesco è un conservatore, anche se l’atteggiamento pastorale è aperto, misericordioso e umano. Ma a livello di fede e di morale non è cambiato nulla. Francesco non è una persona rigida, ha aperto a percorsi di riconciliazione dei divorziati con la Chiesa: resta vero però che a livello di dottrina ed etica è un conservatore, non fosse altro che per età e formazione.

Papa Ratzinger è stato molto attento ai temi del Concilio Vaticano II, che ha ritenuto sempre attuale e che non interpretava come una rottura rispetto alla tradizione.

Sia Francesco che Benedetto XVI hanno voluto essere fedeli al Concilio. Ma mentre Ratzinger, che ha partecipato ai lavori, ne dà un’interpretazione più letterale, credo che Bergoglio guardi più all’evento in sé, come un evento spirituale con cui lo Spirito Santo ha creato una nuova Pentecoste nella Chiesa.

Qual è l’eredità più importante che Benedetto XVI lascia alla Chiesa e ai cattolici?

Le sue omelie sono davvero dei capolavori di fede, del mistero cristiano, che anche i fedeli hanno sentito. Non parlo delle pur importantissime opere perché quelle sono riservate, per la loro complessità, alle élite intellettuali. Le omelie, che spesso vado a rileggermi, sono una grandissima rivelazione dei misteri cristiani, fedeli alla patristica ma con una straordinaria capacità di toccare il mistero della fede.

Lei ha dedicato a papa Benedetto due libri. C’è un episodio del vostro rapporto personale che vuole ricordare?

Non sono sempre stato d’accordo con lui: ho preso le distanze dalla sua scelta di liberalizzare la messa in latino, dicendo che facevo obbedienza ma restavo perplesso. È stato aspramente e ingiustamente criticato per il discorso di Ratisbona, che avrebbe fomentato l’odio dei musulmani: ma lui aveva detto che vera religione e fede sono inconciliabili, perché senza la ragione la fede può diventare violenza o magia. Sono andato a trovarlo che già si era dimesso, abbiamo fatto una lunga passeggiata nei giardini del monastero dove si era ritirato. Mi ha sempre colpito l’interesse che aveva verso l’apporto che avevo dato alla Chiesa sulla lectio divina. In quell’occasione mi ha interrogato a lungo sul rapporto tra parola di Dio e vita della Chiesa. Mi ha commosso.

Silvia Truzzi
FONTE:

(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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