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Attualità

*Meno Stato più mercato*   di Vincenzo D’Anna*

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 *Meno Stato più mercato*

  di Vincenzo D’Anna*

  Le teorie liberali ci insegnano che la competizione è la più alta forma di collaborazione tra “quelli che competono”. Senza questo stimolo a migliorare se stessi, senza, cioè, prodotti e offerte destinati ai consumatori, non può realizzarsi la felice circostanza per il comune acquirente di trovare disponibile la migliore merce al prezzo più basso. Per quanto faticosa possa essere, la competizione ribalta sui cittadini il vantaggio che produce e sugli imprenditori lo stimolo ad escogitare sistemi in grado di migliorare sia il profitto che il costo. Per capirci: un’azienda florida in quanto competitiva, offre occupazione stabile e salari adeguati ai lavoratori oltre a contribuire, con il gettito fiscale, alla produzione di ricchezza nel paese e finanche quel principio redistribuivo della medesima che va sotto il nome di “welfare”. Insomma, per dirla con altre parole, la competizione è lo strumento che evita rendite di posizione e monopoli e quindi di condizionare il mercato. Un fenomeno peraltro naturale che trova la sua radice nei secoli passati a partire dall’istituto del libero scambio e della convenienza che risalgono all’antico baratto. Stiamo parlando di un qualcosa di “naturale” perché anche in altri ambiti della società esiste la competizione ed anche in quegli ambiti essa si conferma come forma attiva di collaborazione. Basti pensare, ad esempio, alla scienza, allo sport ed a tutte quelle discipline basate sulla meritocrazia che, influenzandosi a vicenda nel “competere”, consentono alla società di godere di migliori beni e di eccellenti opportunità. Nessuno si sognerebbe di assegnare la medaglia d’oro a tutti gli atleti finalisti di una gara indipendentemente da chi ha tagliato per primo il traguardo, oppure di conferire il Nobel a tutti gli scienziati in un determinato ambito scientifico. Se così fosse non si batterebbero i record né avanzerebbero ricerche e scoperte. Insomma: si romperebbe il nesso etico tra la ricompensa (il premio) ed il merito dei più capaci. In coloro che vagheggiano ancora uno stato socialista, detentore di prerogative esclusive, oppure inneggiano alla “golden share” che consente allo Stato di incidere nelle aziende da questi partecipate anche se si possiedono quote di minoranza azionaria, la competizione è ritenuta un elemento negativo. Una idiosincrasia

ideologica, un pregiudizio che porta a credere che lo Stato

degli eguali, onnipotente e pervasivo, abbia una superiore finalità etica, in quanto rappresentante della collettività e non di singoli interessi. L’assenza del profitto, ovvero di un ricavo positivo, viene ritenuta, in tal caso, eticamente migliore salvo poi accertare che le perdite prodotte da questi carrozzoni politicizzati, gestiti anche contro le più elementari regole d’impresa, da parte di amministratori indicati dalla politica (e per la tutela della politica), si trasformano in tassazione a carico dei contribuenti. , La parcellizzazione del debito rende tali perdite di entità trascurabile in capo alla moltitudine ai singoli cittadini. Tuttavia se queste vanno ad aggiungersi alle altre, ulteriori, aliquote già accollate in precedenza, ecco che la situazione diventa esplosiva. Sì, perché il meccanismo che si genera, alla fine, produce una fiscalità che raggiunge limiti insopportabili se non immorali,

trasformando lo Stato

in uno spietato gabelliere, sempre affamato per ripianare i debiti. Mancando il rischio d’impresa e la qualità dei servizi, come discrimine dal quale dipende il gradimento degli utenti costretti a doversi servire (a prescindere) di quei monopoli, la gestione dell’impresa diventa indipendente dalla verifica di efficienza e produttività e tutto si orienta verso obiettivi politici se non clientelari. Attenzione: non si tratta qui di astratta economia politica, di dissertazione tra diversi modelli di stato e di economia (libero mercato di concorrenza da una parte, stato monopolista ed imprenditore, in sistematica perdita, dall’altra), quanto di comprendere che quelle scelte hanno delle concrete e reali ricadute sulla nostra vita di tutti i giorni. In una nazione nella quale lo stato possiede industrie ed aziende che coprono oltre il trenta percento della forza lavoro, la questione diventa politica in danno della visione economica. Ma è quest’ultima a determinare il benessere della collettività. Un recente studio dell’Istituto “Bruno Leoni”, pensatoio liberale, dimostra come la riduzione dei vincoli e dei divieti esistenti in campo energetico possa ridurre fortemente il costo dell’energia indipendentemente dalle agevolazioni statali (peraltro di natura temporanea). La liberalizzazione competitiva della gestione e dell’erogazione di gas, carburanti ed energia elettrica, porta con sé la diminuzione della speculazione e la competizione che poi abbassano i prezzi. Insomma: un indirizzo che faccia leva sulle energie in grado di liberare il mercato di concorrenza più che fare leva sulle prebende statali. Sarà certo difficile far comprendere tutto questo in una nazione nella quale il reddito pagato dallo stato a tutti è diventato il nuovo idolo da adorare.

*già parlamentare

FONTE:

(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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