La Cronaca e la Storia: film, libri e giornali sul ‘Caso Moro’
«È una vera mascalzonata»: Giulio Andreotti, nel vedere Il Divo.
(Bellocchio – di Marco Giusti – Dagospia)
Cannes. Seconda giornata. Siete pronti per Esterno notte, serie di sei puntate, o se preferite film di sei ore o sei film di un’ora l’uno, dedicati al rapimento Moro e ai suoi principali protagonisti? Ve lo dico subito. È di gran lunga il miglior film italiano della stagione, imperdibile per chi ha vissuto quegli anni, perché Bellocchio conosce alla perfezione le storie e i personaggi che sta mettendo in scena, che solo in parte ha già ricostruito nel bellissimo Buongiorno, notte vent’anni fa, perché questo sembra proprio coprire quello che nel primo film non si vedeva, l’esterno del buio profondo della prigione di Moro, la notte profonda della nostra Repubblica.
E non si fanno sconti. “Io odio Giulio Andreotti”, dirà nella sua ultima apparizione Aldo Moro, ritenendo il Presidente del Consiglio e suo collega di partito il vero regista dell’intera vicenda e della sua morte.
E Francesco Cossiga? “Un ingrato… un bipolare… un ciclotimico”. E la Democrazia Cristiana, il suo partito? La Democrazia Cristiana la sbriga già nella prima, incredibile scena, dove vediamo tutti i nomi più potenti del suo partito che lo vanno a trovare “da vivo” dopo il rapimento delle BR. Qualcosa da cui scappare per sempre.
Come già accadde in Buongiorno notte, Bellocchio si prende il lusso di dipingere altri scenari possibili, solo se le BR lo avessero salvato, come ci dicevamo fra di noi allora. Moro vivo… Moro morto… Ma a chi sarebbe convenuto un Moro vivo?
Non certo alla DC e a Andreotti, né al PCI di Berlinguer, né ai servizi americani, che attraverso Cossiga conducono la loro strategia. Mentre Craxi è per trattare, intuendo che è quello che gli americani non vogliono. Certo che sarebbe convenuto alle BR. Che con Moro vivo magari non sarebbero state decapitate come accadrà neanche due anni dopo. Il meccanismo dei due diversi finali possibili del caso Moro serve a Bellocchio per spiegare politicamente la scelta-non scelta di Andreotti e soci, e quella delle BR, che impongono la morte di Moro anche a chi, come Morucci e Faranda, lo vedevano come un terribile errore politico.Ma cosa ci possiamo aspettare da un uomo della cultura di Mario Moretti, un perito elettronico?, si domanda il colto Cossiga, quattro lauree, cinque lingue parlate, una passione quasi delirante per le intercettazioni, per sentire la vita degli altri, per registrare qualsiasi cosa. Mentre a casa soffre perché la moglie continua a rifiutarlo e le mani si riempiono di impetigine. La serie è divisa in sei parti ben distinte, ognuna dedicata a un personaggio della storia. La prima parte spetta ovviamente a Aldo Moro, interpretato alla perfezione da Fabrizio Gifuni, più vicino al Volonté di Il caso Moro di Giuseppe Ferrara che al Roberto Herlitzka di Buongiorno notte, a pochi giorni dal rapimento mentre tesse il Compromesso Storico col PCI di Berlinguer per la prima volta in appoggio esterno al governo DC, cercando così di aprire il paese a un nuovo corso. Che non arriverà mai.La seconda è dedicata a Francesco Cossiga, interpretato con giusta nevrotica complessità da Fausto Russo Alesi, al tempo Ministro dell’Interno, pupillo di Moro, quasi un figlio politico, che vede il rapimento come la sua stessa fine politica. La terza invece è dedicata alla figura di Paolo VI, interpretato con giusta solennità da Toni Servillo, un Pontefice già molto malato e sofferente che cerca di salvare come può l’amico fraterno punendosi con un cilicio quasi medievale e poi servendosi di un personaggio di mediazione, Don Curione, interpretato con grande umanità da Paolo Pierobon, che terminerà con la celebre lettera del Papa agli “uomini delle Brigate Rosse” per chiedere la liberazione di Moro.
La quarta, è dedicata alla figura di Adriana Faranda, interpreta da Daniela Marra, bravissima e credibilissima, che lascia la famiglia e la figlioletta per seguire la via della rivoluzione con Valerio Morucci, benissimo interpretato da Gabriel Montesi, che già fu un perfetto Cassano nella serie dedicata a Totti Speravo de morì prima. Attraverso la figura della Faranda, Bellocchio scava sull’evidente errore politico di Moretti e delle BR e ci riporta in maniera incredibilmente presente alla realtà di quei giorni. La quinta è dedicata a Nora, la moglie di Moro, interpretata con toni asciutti e profondi da Margherita Buy, nel momento più tragico della vicenda, quando cioè si accorge che il partito, la DC, non muoverà un dito per la salvezza del marito.
La sesta e ultima puntata deve concludere l’intera vicenda con la morte di Moro e la sua macabra messa in scena. Inutile dirvi per tutte le sei ore, malgrado una sceneggiatura complessa dove le storie dei singoli personaggi si intrecciano, Bellocchio tiene perfettamente in pugno il suo film e la sua costruzione non lineare, usando certi momenti ritornanti come puntelli per farci meglio capire la storia e i suoi tempi sfalsati.
E se possiamo preferire il bellissimo episodio del Papa e di Don Curione o quello ultrarealistico della coppia Morucci-Faranda o quello più originale dedicato a Cossiga, non mancano mai né le sorprese del meccanismo narrativo né quelle di pura messa in scena, la grande tavola di Roma che gronda sangue sotto gli occhi di Cossiga, Andreotti, interpretato da Fabrizio Contri, che quando sente del rapimento di Moro, si chiude in bagno e vomita, le scene di rivolta per le strade con gli slogan, il ritorno dei percorsi romani più tipici pieni di scritte d’epoca, la Via Crucis, l’uso dei repertori televisivi con Bruno Vespa e Emilio Fede.
Bellocchio non solo ingloba nella serie, sfruttandola, l’esperienza di Buongiorno notte, non solo ingloba gli altri film girati su Moro, dal grottesco di Todo Modo di Elio Petri al realismo non sofisticatissimo del Caso Moro di Ferrara, che pure aveva fior di attori, da Volonté a Margarita Lozano, ma tocca anche il nuovo grottesco sorrentiniano di Il Divo e di The New Pope, riuscendo sempre però a imporre un suo sguardo preciso, mai moralista, sulla storia, sui tempi, sulla follia della lotta armata, su quello che significò per tutti noi la morte di Roma. Una morte che porterà alla fine delle BR e alla nascita della Prima Repubblica, al CAF, a Bettino Craxi e Berlusconi e a Mani Pulite. “La politica ha un prezzo” si sente dire da Moro a Cossiga, senza pensare al prezzo che lui stesso sarà costretto a pagare per la politica del suo partito.
Se la figura di Andreotti rimane quella più ambigua e non sviluppata, magari ci ha pensato Sorrentino, si dirà, e quella di Cossiga è frutto di un continuo tormentarsi cattolico fra il bene del partito e la gratitudine al suo maestro, il Moro che viene fuori da questa serie è un Moro combattivo che è sceso in campo pronto a regolare i conti con un partito che ha dominato il paese e che forse un’apertura politica a sinistra avrebbe potuto migliorare. Solo un Paolo VI ormai vecchio e malato vede come precisa scelta politica per il bene del paese, quella di liberare Moro.
Grande racconto tragico che non so francamente come verrà accolto dal pubblico di Rai Uno in tv, Esterno notte, come il celebre programma di Sergio Zavoli, La notte della Repubblica, è un viaggio di grande intelligenza e conoscenza storica dentro il cuore profondo del paese, senza dover per questo fare rivelazioni sorprendenti o sposare qualche tesi. Bellocchio sa come non cadere nelle trappole del cinema politico, essendoci nato dentro. Ma quel che mette in scena, con la produzione di Lorenzo Mieli di The Apartment e Simone Gattoni della Kavac film, con il montaggio di Francesca Calvelli, con la musica (una vera scoperta) di Fabio Massimo Capogrosso e la fotografia di Francesco Di Giacomo non è una lezione di storia, è una lezione di cinema. Fenomenale. Da oggi in sala la prima parte di tre ore. Tre puntate.
(Marco Giusti – Bellocchio – di Massimo Franco – Corriere della Sera)
«Ho visto che il regista Marco Bellocchio si è pentito dopo cinquant’anni di essere stato tra i firmatari del documento famigerato contro il commissario Luigi Calabresi: proprio adesso che ci vuole fare un film. Poi parlano di cinismo di Andreotti… Spero che tra una ventina d’anni, studiando magari un po’ di carte, si penta anche dell’immagine falsata che mi dicono dia di mio padre Giulio nella sua ultima pellicola sul sequestro di Aldo Moro. Che non andrò a vedere».
Stefano Andreotti, 70 anni, terzogenito dell’ex premier democristiano scomparso nel 2013, arrota il sarcasmo e la erre francese «ereditata dalla famiglia di mia madre Livia Danese insieme alla bassa statura, perché gli Andreotti invece sono altissimi: compreso mio figlio Giulio». Ma conferma soprattutto quanto sia siderale e irrisolvibile la distanza tra l’immagine cinematografica dell’emblema del potere democristiano nella cosiddetta Prima Repubblica, e quella che ne serba la famiglia.
Scusi, dottor Andreotti, ma ci sono stati film nei quali è stato accreditato perfino il bacio di suo padre al mafioso Totò Riina, nonostante le perplessità degli stessi magistrati. Ma non avete reagito.
«Allora non dicemmo nulla come famiglia perché era vivo mio padre. E mio padre non aveva bisogno di difensori. Ricordo che quando vide con Gian Luigi Rondi il film Il Divo in una saletta privata, disse: “È una vera mascalzonata”. Ma non ha mai reagito, mai querelato, e noi per rispetto nei suoi confronti lo abbiamo assecondato, pur non essendo sempre d’accordo».
Secondo lei suo padre non era cinico? Per un uomo di potere è quasi una dote, non un difetto. Non le fa velo l’affetto filiale?
«Guardi, premetto che non ho visto il film ma solo letto gli articoli in cui si fa riferimento a mio padre. Ma mi è bastato vedere altre opere di Bellocchio come quella sul mafioso pentito Tommaso Buscetta, che ha fatto apparire quasi come un eroe. Quanto al cinismo: la cosa intollerabile è che dipingano mio padre come se fosse responsabile dell’assassinio di Aldo Moro, insensibile ai tentativi di salvarlo. Di più, quasi d’ostacolo alle trattative. Questa è una profonda falsità politica e ingiustizia storica».
È un fatto che fosse presidente del Consiglio e il più esposto al no alla trattativa con le Brigate rosse.
«Ma per la trattativa non era quasi nessuno. Enrico Berlinguer e il Pci, Giovanni Spadolini e il Pri, il futuro capo dello Stato Sandro Pertini e gran parte della Dc erano contrari. La trattativa significava rilasciare dei terroristi in prigione. Era possibile dopo l’uccisione di cinque uomini della scorta di Moro? Quegli anni sono stati brutti, e quelli dopo, con i processi di Palermo e Perugia, furono addirittura più infamanti: babbo li visse come un Purgatorio in terra, ci diceva. Ma non poteva accettare di essere descritto come un ostacolo alla liberazione di Moro. È una mistificazione, come quella di raffigurare Moro come un politico che non apparteneva alla Dc».
Se fosse stato rapito lui, che cosa avrebbe fatto? E voi che avreste fatto?
«Ne abbiamo discusso molto, in quei mesi terribili e anche dopo. Ci disse: se succede a me, bisogna fare la stessa cosa. Lo Stato non può riconoscere un’organizzazione criminale e terroristica».
Sembra proprio che Andreotti e il caso Moro rimangano prigionieri della cronaca. Lei come se lo spiega?
«È un Paese con la memoria corta, nella quale continua la demonizzazione della Dc da parte di una sinistra sconfitta dalla storia insieme con l’Unione sovietica dalla quale di fatto dipendeva e alla quale era legata a doppio filo. E sulla contrapposizione tra Moro e il suo partito si dimentica che fu lui a dire in Parlamento: “Non ci faremo processare nelle piazze”. E sempre lui volle mio padre a Palazzo Chigi per guidare il governo con i comunisti nella maggioranza».
Colpisce un po’ vedere emergere gli Andreotti come famiglia, e con questa voglia di riabilitare la figura paterna, dopo che per decenni con vostro padre vivo e potente sembravate non esistere.
«Era una scelta di mio padre, e condivisa da noi, di crescere il più possibile come una famiglia normale, facendo pesare il meno possibile un cognome ingombrante. E noi ne siamo stati ben felici».
Non si riconosce neanche nell’immagine un po’ tetra, misteriosa che alcuni film hanno trasmesso della vita privata della vostra famiglia?
«Nemmeno un po’. La verità è che anche quella descrizione della nostra famiglia è stata data sulla base di pregiudizi, senza conoscere davvero nulla di noi. Mio padre era esattamente l’opposto di quanto si diceva. In famiglia era pieno di umorismo, di attenzioni, di vita. E, sembrerà strano ad alcuni, di gesti affettuosi».
Lei ne sembra molto orgoglioso.
«Non sembro, sono molto orgoglioso di lui. E voglio ricordare quanto fosse diverso da come lo raffigura la vulgata: colluso con la mafia, o così cinico da fare ammazzare Moro. Ricordo le serate con monsignor Pasquale Macchi, braccio destro di Paolo VI, a casa nostra in Corso vittorio Emanuele, a Roma, alla disperata ricerca di un canale per salvare Moro. Pensi che quando quel terribile 9 maggio del 1978 Francesco Cossiga chiamò mio padre per dirgli che era stato ritrovato, per qualche attimo sperò che lo avessero liberato e non ucciso. Era un uomo con la coscienza pulita, e lo dimostra la serenità con la quale ha affrontato la morte. Aveva una fede profonda in Dio, che io non ho così profonda».
I nipoti che ne pensano?
«Per loro è un mito. Un vero nonno, affettuoso e attento. Il loro è stato un rapporto forte, intenso, complice».
Non sta offrendo un’immagine troppo angelicata? Suo padre è stato un uomo di potere controverso, per alcuni spietato. Ed era famoso per le raccomandazioni. Lei ne ha goduto?
«Non scherziamo. Tutti noi quattro, due figlie e due figli, abbiamo fatto il nostro percorso lavorativo lontani dal potere e dalla politica. Racconto solo un episodio. Nel 1977, mio padre era presidente del Consiglio, un amico mi disse che assumevano alla Siemens, a Milano. Col cuore spezzato di un romano che ama Roma, andai al colloquio. Poi passai all’ufficio del lavoro perché a quel tempo serviva il nulla osta. Quando l’impiegato lesse il mio cognome, disse d’istinto: “Andreotti… Di certo non è figlio di quell’Andreotti, altrimenti non sarebbe qui a fare la fila come gli altri…”. E sono andato a fare l’impiegato a Milano».
(Massimo Franco – Bellocchio – di Aldo Cazzullo – Corriere della Sera)
Caro Aldo
Esterno notte è un altro film sugli anni Settanta, ancora una volta diretto da un regista coi capelli bianchi, perché chi ha 30 anni oggi non sa più niente di quell’epoca, il regista appartiene alla generazione che si è abbeverata politicamente nel periodo della contrapposizione tra Dc (e socialisti) e comunisti. Tra chi campava grazie agli aiuti atlantici e chi grazie a quelli moscoviti. In questa cornice in Italia avvenne di tutto. Forse non sapremo mai la verità di tante vicende, ma sono fioccate tante ricostruzioni fantasiose alla ricerca di complottisti, cattivoni a stelle e strisce, servizi segreti «deviati», politici corrotti, tutti da una parte, mentre l’altra aveva legami con Mosca e aveva compagni che sbagliavano. (Ivo Cozur)
Caro Ivo,
Non ho ancora visto Esterno notte. Il critico del Corriere Paolo Mereghetti ne ha scritto positivamente, e possiamo fidarci. Marco Giusti su Dagospia lo definisce il più bel film italiano dell’anno. Ma anche se fosse brutto — e non credo lo sia —, varrebbe comunque la pena affrontare ancora quegli anni. I giovani, mi creda signor Cozur, non ne sanno molto. E dopo il tempo dei «complottisti», come li definisce lei, ora sembra venire il tempo dei negazionisti. Di questo passo finiremo per tornare a dire che in piazza Fontana esplose una caldaia. Ricordo una conversazione con un amico polacco, un imprenditore visceralmente e giustamente anticomunista, che diceva più o meno: «Voi italiani avete avuto una storia terribile. Noi vivevamo sotto il giogo sovietico, certo. Eravamo molto più poveri. Non potevamo votare. Ma da noi non esplodevano bombe sui treni, nelle piazze, nella banche. Non si ammazzavano poliziotti, magistrati, giornalisti per strada». In realtà, anche in Polonia — senza tornare al tempo delle persecuzioni staliniane — si poteva morire per un delitto politico, come accadde a padre Popieluszko. Ed è ovvio che il paragone tra una dittatura comunista e una democrazia occidentale è impossibile. Resta il fatto che di questa «storia terribile» noi non abbiamo piena consapevolezza. È chiaro che le bombe non le metteva il governo, cioè la Democrazia cristiana. Ma la strategia della tensione fu concepita e resa possibile da apparati dello Stato, che utilizzarono i fascisti — e forse, prima di piazza Fontana, gli stessi anarchici — e li protessero, depistando le indagini. Questo ci dicono le sentenze. O sono complottisti anche i magistrati?
(Aldo Cazzullo – Bellocchio di Francesco Merlo – La Repubblica)
Caro Merlo, ho visto Esterno notte e mi si è riacceso un vecchio cruccio, che mi fa male: come ho potuto quel marzo-maggio ’78 (avevo 43 anni) restare cinicamente indifferente a un sequestro così feroce (ahi, l’ideologia). Penso che quell’assassinio, se non determinò, accelerò la fine del sogno delirante delle Brigate rosse, di cui neanche io (né con le Br né con lo Stato) afferrai il carattere “bestiale”.
(Gualtiero Todini – Roma Centocelle)
Non ho visto il film di Bellocchio, ma le confesso che sull’assassinio di Moro e sulle Brigate Rosse — “questi pezzenti della politica, che disonorano un colore per noi sacro” disse il presidente Pertini — non solo non mi piace la letteratura psico-politica che dà la colpa alla Dc e ad Andreotti, ma penso che non ci siano misteri e che i terroristi non fossero eterodiretti da un regista occulto. È un’idea smentita da tutti i processi, dalle sentenze, dalle commissioni parlamentari. Perché non dovremmo fidarci? Sto con i tanti che, da Giorgio Bocca a Indro Montanelli ad Armando Spataro, non hanno mai creduto al complotto. Capita che la realtà sia molto più banale di quanto si pensi. Non credo nemmeno che ci fosse una guerra civile, e non penso che ci sia da riconciliarsi con criminali, che erano esperti di covi e agguati, non di politica, disadattati che colpirono l’Italia più aperta e civile: “hanno assassinato — scrisse Claudio Magris — non corrotti, mafiosi o golpisti (il che sarebbe stato comunque un grave reato) ma i rappresentanti dell’Italia migliore, un’Italia più libera e democratica che oggi avrebbe potuto essere diversa; uomini come l’avvocato Croce, l’operaio comunista Guido Rossa, giornalisti come Carlo Casalegno e Walter Tobagi, il professor Bachelet e molti altri, fra i quali numerosi magistrati”. Penso invece che meriterebbe un film quel 1978, in cui anche lei, caro Todini, si vergogna di essersi smarrito, l’anno più denso del dopoguerra, che cambia la verità dell’Italia: l’anno di Moro è anche quello della cacciata come un ladro di Leone dal Quirinale, e di Pannella, Bonino, Mellini e Spadaccia imbavagliati in tv contro l’oscuramento (ma va!) dei referendum; l’anno di Pertini e dei tre papi, Paolo VI, Luciani e Wojtyla; della legge 194 sull’aborto, della legge Basaglia che chiuse i manicomi, dell’istituzione del Sistema Sanitario Nazionale; dell’Oscar a Una giornata particolare, dell’incidente areo di Punta Raisi (107 morti), dell’assassinio di Peppino Impastato, l’eroe dei “cento passi”; l’anno dell’ultima esibizione di Mina. Pensi che film si potrebbe fare. In quanto a Bellocchio e al suo “mal di Moro”, devo sottrarmi alla tentazione di Emilio Cecchi: “non l’ho letto, ma non mi piace”.
(Francesco Merlo – di Marco Bellocchio – Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)