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La storia di Serena: una fra ‘le prime della classe’, che fa onore all’intera società

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Alle nostre madri: senza di esse non saremmo state così…

E noi, cosa siamo diventate noi? Le prime della classe, come Serena…

Sono nata alla fine degli anni Sessanta e quando ero cosciente di esistere era ormai già tutto accaduto, dunque ho conosciuto il ‘68 solo dai libri, degli anni ‘70, poi, con tutta la loro carica esplosiva fatta di stragi, di morti, di rapimenti, di contestazioni e manifestazioni, sono arrivati a casa mia solo i riverberi.

Ricordo ancora quando fu rapito e ucciso Moro: ero una ragazzetta di dieci anni. Mia madre mi mandava a prendere lezioni di taglio e cucito, perché, diceva, una donna deve saper fare anche quello (ho odiato per sempre ago e cotone) e la signora, una donnetta pettegola e intrigante si scandalizzò perché io non sapevo nemmeno chi fosse Moro.

Ma chi era? Da quel momento cercai di interessarmi ai telegiornali e chiesi a mio padre, che cominciò a spiegarmi con la sua solita prosopopea. La verità era che io vivevo in una periferia suburbana senza identità, su una strada che collegava la città alla provincia, in una zona che di lì a poco sarebbe entrata nel baratro, nell’abisso della criminalità organizzata, quando all’indomani del terremoto, si trovò con strade sbarrate, vicoli ciechi, brandelli di muri, e i soldi della ricostruzione affluirono nelle tasche di chi sa chi.

La mia famiglia viveva nel Limbo del tempo e dei ricordi, viveva ancora tragicamente il dramma della guerra e soprattutto del dopoguerra, in una sorta di rimpianto di ciò che poteva essere e non era stato, di torto subito, di una ineluttabile volontà superiore alla loro. In casa mia non si parlava mai del presente, esso era gramo, non era quello che si era sperato di avere, ma sempre del passato.

Questi racconti, però, non erano mai fatti dai miei genitori e soprattutto da mia madre. Lei conservava un profondo riserbo per ciò che era il suo passato quasi nascondesse un doloroso segreto, solo molti anni più tardi, durante un viaggio in macchina mi raccontò alcune cose di sé, sorprendendomi, ma lasciandomi la sensazione di non aver detto tutto, dell’inafferrabilità della sua essenza.

I racconti erano per la maggior parte fatti da mia zia, una donna con un profondo senso tragico della vita. Non aveva studiato letteratura greca, ma conosceva benissimo il senso della ubris, e il potere del destino che incombe sulle sorti degli uomini, e spesso mi travolgeva come una valanga, fatta di ricordi, di emozioni, di interpretazioni  con  la storia della nostra famiglia, una sorta di epico racconto.

Lo faceva arrivando con la memoria tramandata da due tre generazioni prima, arricchendole di particolari che erano via via avventurosi, romantici, picareschi, magici. Da questi racconti prevaleva un’ immagine, o perlomeno questa era l’idea che mi ero fatta, di una famiglia di stupidi, o quantomeno di ingenui, perché quasi sempre  avevano perso grandi occasioni, o si erano lasciati imbrogliare da qualcuno più in gamba o più furbo di loro.

Mi dicevo che non era possibile, non si poteva essere così, che la stupidità è un difetto che si paga a caro prezzo, ma poi ho capito di esserne affetta pure io, che il mio DNA era contagiato dello stesso errore genetico, che in effetti non si trattava di non essere capace di capire, di non vagliare il reale o le situazioni, ma non essere capace di agire, non dico di anticipare, ma di anteporre i propri desideri e bisogni a quelli degli altri.

Cosa ci impediva di fare ciò? La ubris. La paura del giudizio di Dio, quel Dio giudice appreso al catechismo, e dagli uomini. Ho cominciato allora la mia lotta contro il peccato originale che incombeva sulla mia famiglia, mi sono barcamenata tra esistenza in continuo bilico tra essere la prima della classe, sempre perfetta, intelligente, capace, pronta, ma retta, pronta a soccorrere i bisogni altrui, sempre political correct, il riscatto per quelli che non ci erano riusciti perché imprigionati nell’uno o nell’altro ruolo e la parte nascosta di me, quella che ho sempre imprigionato,  ma che prepotentemente usciva fuori.

Era la parte tormentata, la parte nera, quella che mi portava sull’orlo del baratro e che mi faceva pensare e poi fare le cose più terribili. Terribili per me è ovvio perché uscivo da queste esperienze, che erano tra l’onirico e il reale in una girandola parossistica senza fine, estenuata, annichilita, sopraffatta da un senso angoscioso dell’esistenza che mi facevano poi gettare a capofitto nell’altra vita alla ricerca di un po’ di normalità.

Gli anni dell’adolescenza li ho trascorsi lontano dalla grigia esistenza a cui era condannato il luogo in cui abitavo, divenuto sempre più l’emblema del trash, dell’incivile, di tutto ciò che può rappresentare l’aspetto negativo della periferia della mia città ancora tristemente avvinta in un torpore che somiglia più a stordimento morale e civile che ad una volontà di ripresa sbandierata da una certa propaganda politica.

Per volontà dei miei genitori, presi da un’insospettabile senso di lungimiranza, mi iscrissi in un prestigioso liceo del centro, anni addietro fucina di menti politicamente impegnate. Furono anni molto duri, dovetti lavorare faticosamente per uscire fuori dal bozzolo della mia educazione, che avvertivo come ingombrante ed opprimente, ma mi era stata cucita addosso così bene, che distinguere ciò che era mio da ciò che non lo era fu molto difficile. Sono stati gli anni più dolorosi e insieme i più intensi della mia vita, lì sono nata una seconda volta, sono nata come donna, come essere autonomo, come anima.

L’autrice, Bianca Sannino, docente appassionata nella scuola statale italiana, vive e insegna a Portici da più di vent’anni. Dopo aver attraversato perigliosi mari in vari ambiti e settori ed essersi dedicata alla redazione di libri saggistici e specifici del settore dell’insegnamento, esordisce oggi nel genere novellistico. Due lauree, corsi di specializzazione, master non sono bastati a spegnere la sua continua, vulcanica e poliedrica ricerca della verità. Da sempre, le sue parole che profumano di vita e di umanità, arricchite dalla sua esperienza e sensibilità, restituiscono delicati attimi di leggerezza frammisti a momenti di profonda riflessione.

(di Bianca Sannino– Fonte: Lo Speakers Corner – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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