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Attualità

Riflessioni sul Carnevale di Salvatore Fiorellino

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Pubblichiamo le riflessioni sul Carnevale del prof. Salvatore Fiorellino, docente di storia e filosofia presso il liceo “G.B. Vico” di Napoli, nonché articolista presso la rivista Realinside da cui è tratto l’articolo https://realinside.it/carnevale-il-senso-della-maschera/?fbclid=IwAR0uIP86FRE-Mw4bLNOk1e4weYS9jOq6IvpuWr1j-0RZyLwcpiePb32HFEc

La parola Carnevale, molto probabilmente, deriva dal latino “carnem levare”, e indica comunemente il Martedì grasso, l’ultimo giorno in cui si può mangiare in abbondanza, prima del digiuno del Mercoledì delle ceneri. Festività lunga, ha origini alquanto controverse, anche per l’utilizzo delle maschere. C’è chi chiama in causa addirittura i misteri dionisiaci, per quanto oggi la festa sia cristianamente collegata alla Quaresima.

Certamente, il Carnevale ha conservato, a mio avviso, un carattere misterico, anche per il significato che veicola. Carnevale è in fondo la fine di una dimensione, non soltanto festosa, ma propriamente altra – come vedremo – per entrare in un’altra che richiede, a sua volta, nuove prove iniziatiche (digiuno, penitenza, contrizione, preghiera) al fine di partecipare, quali persone nuove, ai riti pasquali.

Elemento peculiare del Carnevale è, come ho accennato sopra, la maschera. In greco si dice pròsopon, termine che indica anche faccia, viso, ossia ciò che sta davanti alla vista. Pròsopon è ciò che vediamo di un altro. Per questo i latini tradussero la parola con “persona”. 

Non è inopportuno allora chiedersi se portiamo una maschera o siamo effettivamente una maschera.

Ancora: è possibile togliersi questo mezzo o siamo tutt’uno con esso? È difficile dare una risposta definitiva. Perché ne va non solo del nostro essere, ma dell’autenticità nelle relazioni. Indossare una maschera vuol significare principalmente che siamo portatori di una finzione, voluta (e quindi siamo liberi da essa) o naturale (siamo essenzialmente portati a fingere). Se davvero siamo liberi di determinare il nostro essere, dovremmo presentare una maschera che cambia a seconda delle situazioni: una maschera per quando stiamo bene, una per quando stiamo male; una per la gioia, una per il dolore ecc. In questo caso, sarebbe difficile creare una relazione stabile e sicura con gli altri. Perché non solo non sapremmo chi effettivamente siamo, ma non avremmo nemmeno la sicurezza dell’onestà del nostro interlocutore.

Di conseguenza, la libertà diventerebbe una licenza a fingere, la quale a sua volta si trasformerebbe in una condizione necessaria. Questa è la situazione che si determina, in parte, a Carnevale. Scegliamo una maschera a seconda delle circostanze e degli umori, della moda, del tempo. Fingiamo di essere altro per instaurare una relazione che sia volutamente irreale, fuori da ogni dimensione spazio-temporale: un breve momento, fugace, che dura solo per il divertimento, senza provocare alcuna confusione determinata e obbligante.

È comunque altrettanto vero che noi siamo una maschera, non credo però in senso essenziale, ma nel significato di “proprio” di cui parlava Aristotele: la maschera-persona è propria di ciascuno, come il riso è proprio di un uomo. Ossia è qualcosa di specifico, seppure non essenziale. Questo non deve spaventare. Esprimiamo un’essenza profonda attraverso una caratteristica peculiare: la verità è tale perché velata da uno strumento che agisce effettivamente per ingannare. Pare quasi un invito, rivolto all’altro, a cercare oltre il pròsopon, che pure rivela chi siamo. Soltanto che questa rivelazione avviene in una maniera diversa da come ce l’aspetteremmo, ossia attraverso un nascondimento/inganno.

Anche quest’alto aspetto è presente nel Carnevale.

Indossando una maschera, che serve a coprire l’altra propria di ciascuno, nascondiamo l’unico strumento che abbiamo per rivelare la nostra natura attraverso una finzione. Togliamo l’altro dall’imbarazzo e dall’impegno della ricerca, offrendo di noi stessi una sorta di avatar che, anziché riprodurre una copia di noi, ne altera il senso, moltiplicando l’io in uno specchio di immagini che si nascondono. Insomma, a Carnevale, la maschera ci aiuta a diventare altro.

In un certo modo, abbiamo un imprescindibile bisogno del Carnevale.

Certamente come momento di svago, per prendersi una pausa dalle difficoltà della vita, ma anche per sospendere un po’ il nostro essere. Magari vivere per un breve momento l’illusione di poter essere diversi. In effetti, per quanto liberi di costruire la nostra essenza, ci sono dei vincoli che non possiamo spezzare. Siamo destinati ad essere quel che siamo, sebbene le aspirazioni, i sogni, la possibilità ci spingano oltre la realtà che ci inchioda a terra.  Insomma, non possiamo toglierci la maschera che siamo/indossiamo; possiamo soltanto coprirla con un’altra che, per una volta, scegliamo noi.

Probabilmente, dobbiamo incominciare a considerare il Carnevale come una dichiarazione di verità. Dichiarazione che non possiamo permetterci ogni giorno: perché pesante da sopportare, perché difficile da attuare, perché richiederebbe uno sconvolgimento totale della vita finora. O perché, semplicemente, ci costringerebbe a fare i conti con quel che siamo veramente, e che in fondo non vorremmo essere.

L’articolo Riflessioni sul Carnevale di Salvatore Fiorellino proviene da BelvedereNews.


Source: Belvedere – 10/1
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