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sabato 23 novembre 2024
I caschi blu italiani feriti in Libano, la minaccia di Putin, l’intervista a Merkel

(FILES) In this file photo taken on June 15, 2021 then German Chancellor Angela Merkel gives a press conference at the end of the second day of an EU summit at the European Council building in Brussels. Angela Merkel was still one of the world's most popular politicians when she retired in 2021, but critics are increasingly questioning her legacy ahead of the release of her memoirs. "Freedom", co-written by Merkel and her longtime political adviser Beate Baumann, will be published in 30 languages on November 26, 2024 just as Germany grapples with a deep political crisis ahead of snap elections in February. (Photo by Stephanie LECOCQ / POOL / AFP)

La premier italiana Giorgia Meloni ha definito «inaccettabili» gli attacchi ai militari italiani e ha rinnovato l’appello «affinché le parti sul terreno garantiscano la sicurezza dei soldati Unifil e collaborino per individuare in tempi brevi i responsabili». Ancora più duro il ministro della Difesa, Guido Crosetto, per il quale l’attacco alla base di Shama è «un atto di guerra verso i rappresentanti di una missione di pace. Possiamo solo condannarlo perché non abbiamo e non vogliamo interlocuzione con l’organizzazione terroristica Hezbollah». Crosetto però si è rivolto anche «al collega Katz (nuovo ministro della Difesa israeliano, ndrper aiutarci a proteggerci dai razzi di Hezbollah» – evitando di usare come «scudo», volontariamente o meno, le basi Unifil – e ha chiesto perciò a Israele «di evitare il più possibile i combattimenti vicino alle nostre basi. Anche se ripeto che la soluzione è l’attuazione della risoluzione, con il ritiro di Hezbollah dal Sud del Libano e lo smantellamento delle sue infrastrutture nella regione».

Israele, a dire il vero, come ricorda il portavoce Unifil Andrea Tenenti, ha chiesto al contingente Onu di andarsene («Con la nostra presenza creiamo problemi alle parti in conflitto, ma siamo lì per questo»), ipotesi che Tenenti respinge: «Siamo come un arbitro ferito che continua a fare il suo lavoro. Non vogliamo andare via, pensate a cosa accadrebbe in uno scenario come quello attuale se nel sud del Libano non ci fossero i caschi blu. Dobbiamo rimanere anche in vista del day after, quando finirà questa guerra». E può finire soltanto, a suo avviso, «con il ritorno in forze dell’esercito di Beirut nel sud del Libano, in modo che nell’area non ci siano più armi, nè violazioni».

Scrive Andrea Nicastro che «prima Hezbollah e ora Israele hanno usato le basi Unifil come scudi. A meno di improbabili cambi tattici dei due nemici, i caschi blu devono solo resistere, sotto il fuoco, fino a che Israele avrà conquistato la vetta della collina di Shama o, meglio, fino al cessate-il-fuoco». Che, però, potrebbe essere vicino. «Secondo la stampa di Tel Aviv ci sono l’80% di probabilità che gli scontri si fermino a giorni».

Arrestare Netanyahu, Ue divisa

Poi c’è il solito Viktor Orbán, premier ungherese – e, fino a fine anno, alla guida della presidenza di turno del Consiglio Ue – che degli acuti fuori dal coro è maestro riconosciuto: «È un’ingiustizia e quindi non possiamo che opporci. Non solo non arresteremo Netanyahu, ma inviterò il primo ministro israeliano a visitare l’Ungheria».

La posizione italiana

Se si guarda a Roma, si trovano un po’ tutte le posizioni dentro uno stesso governo. La premier Meloni propende per l’attendismo franco-tedesco: «Approfondirò in questi giorni le motivazioni che hanno portato alla sentenza della Corte penale internazionale. Motivazioni che dovrebbero essere sempre oggettive e non di natura politica. Un punto resta fermo per questo governo: non ci può essere una equivalenza tra le responsabilità dello Stato di Israele e l’organizzazione terroristica Hamas».

Ma il suo messaggio è arrivato quando già vari ministri avevano dato ampia dimostrazione di una compattezza non proprio granitica. Il primo a esprimersi era stato il già citato Guido Crosetto: «Aderendo noi alla Corte penale internazionale, in questo caso dovremmo applicare le disposizioni. E quindi se venissero in Italia Netanyahu o Gallant dovremmo, non per decisione politica, non c’entra nulla, ma per applicazione di una norma internazionale, arrestarli. Oppure dovremmo uscire dal trattato», aveva spiegato. Matteo Salvini si è, all’opposto, subito posizionato sulla trincea orbaniana: «Conto di incontrare presto esponenti del governo israeliano e se Netanyahu venisse in Italia sarebbe il benvenuto. I criminali di guerra sono altri». Nel mezzo l’altro vicepremier, Antonio Tajani, di Forza Italia: «Dobbiamo verificare» (con la specifica che, trattandosi di una linea di politica internazionale, quel «dobbiamo» si riferisce alla premier e al ministro degli Esteri, cioè lui).

Visto l’andazzo, Meloni ha proposto di spostare la partita su un altro terreno: «La presidenza italiana del G7 intende porre il tema all’ordine del giorno della prossima ministeriale Esteri (la riunione dei ministri degli Esteri dei Sette Grandi, ndrche si terrà a Fiuggi dal 25 al 26 novembre».

Commenta Massimo Franco, nella sua Nota, che Salvini, con il suo «benvenuto» eventuale a Netanyahu, «ha creato un imbarazzo palpabile. E non solo perché la sua dichiarazione è stata rilasciata subito dopo la controversa richiesta di arresto della Corte penale internazionale contro Netanyahu. A sorprendere e sconcertare è stata l’assenza di coordinamento con Meloni e il ministro degli Esteri Antonio Tajani, i quali hanno mostrato più prudenza. (…) Tuttavia anche il ministro della Difesa, Guido Crosetto, di FdI, ha suscitato perplessità sostenendo che “se Netanyahu venisse in Italia dovremmo arrestarlo”. È una confusione che i missili di Hezbollah contro il contingente italiano dell’Onu in Libano oscurano un po’. Ma non può durare».

Von der Leyen prova a ricucire

C’è un altro «imbarazzo» che, secondo Franco, Salvini ha causato al governo di cui è vicepremier: il suo «no», condiviso  con i «Patrioti» europei, a Ursula von der Leyen. Perché quel no «indebolisce l’accusa alle opposizioni di avere tenuto un atteggiamento “anti-italiano”. Il sì del Pd a Fitto, per quanto tormentato, rende l’accusa irricevibile».

Sia come sia, mercoledì l’Europarlamento dovrà votare sul collegio di commissari del von del Leyen 2 e, visto che su un voto a Strasburgo non c’è mai da fidarsi, Francesca Basso segnala che i tentativi di «ricucitura» sono in pieno corso. Lunedì von der Leyen vedrà a Strasburgo i capigruppo della «maggioranza Ursula» Manfred Weber (Ppe), Iratxe García Pérez (Socialisti & Democratici) e Valérie Hayer (Renew). «Gli scontri delle ultime settimane tra popolari e socialisti sui vicepresidenti esecutivi Teresa Ribera (Spagna) e Raffaele Fitto (Italia) – scrive Basso – hanno prodotto macerie che rischiano di ingombrare il percorso di von der Leyen. La dichiarazione di cooperazione è parsa a tutti a Bruxelles come una foglia di fico per consentire a socialisti e liberali di giustificare il loro voto positivo sull’audizione di Fitto, dopo che avevano definito la sua vicepresidenza una linea rossa che non poteva essere oltrepassata». Decisione che ha spaccato il gruppo S&D e  che non è piaciuta alle delegazioni francese, socialista, belga e le baltiche, che potrebbero decidere di non sostenere von der Leyen nel voto in plenaria. Ci potrebbe essere defezioni anche nel Ppe come in luglio (gli irlandesi e gli sloveni di Janša).

«Non è l’unica frattura che si è creata con i gruppi – aggiunge Basso -. Von der Leyen incontrerà martedì i due copresidenti dei verdi, la tedesca Terry Reintke e l’olandese Bas Eickhout. I verdi, che in luglio sono stati la stampella della “maggioranza Ursula”, decideranno lunedì sera la propria posizione in merito al voto sul Collegio e la delegazione italiana ha già anticipato il proprio no».

«Dobbiamo abituarci all’idea che probabilmente non esisterà più una maggioranza stabile, definita. Per colpa delle furbizie di Weber ogni volta faremo i conti con le incursioni della destra nazionalista che tenta di far arretrare l’Europa», dice a Maria Teresa Meli l’ex segretario del Pd e oggi europarlamentare Nicola Zingaretti.

Il presidente russo Vladimir Putin è tornato ieri sera a parlare di «test balistici di successo» e della «superiorità militare russa». Lo ha fatto in toni molto simili a quelli utilizzati giovedì per spiegare quale tipo di missile – l’Oreshnik – aveva fatto sparare sull’Ucraina poche ore prima e soprattutto ribadire che la Russia dispone ormai di nuove armi balistiche all’avanguardia ed è pronta a utilizzarle nel caso siano minacciati «la sicurezza nazionale e i suoi interessi vitali».

Putin minaccia, cambia la dottrina atomica russa, ma la Nato ribadisce che il sostegno all’Ucraina rimane. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky chiede ai leader globali una «risposta seria» così che Putin «provi le conseguenze reali delle sue azioni». L’intelligence ucraina spiega che i missili russi ipersonici sono pochi e ancora in fase sperimentale. Nato e ucraini ne parleranno martedì al summit dedicato alla minaccia balistica russa. «Le ultime ore dimostrano che la minaccia di un conflitto globale è seria e reale», ha notato il premier polacco Donald Tusk.

Scrive l’ambasciatore Giampiero Massolo: «L’Ue da sola non è in grado di negoziare un esito in Ucraina. Situazione scomoda visto che dalla conclusione della guerra dipendono il futuro della nostra sicurezza e l’entità del conto a nostro carico. (…). Si tratta di convincere la nuova amministrazione Trump che investire sull’Ucraina conviene: sul piano economico, per investimenti e risorse; su quello della sicurezza, perché un’Europa instabile comprometterebbe il pivot Usa verso Pechino. (…) I nodi restano due: convincere Putin a negoziare — mentre alza il prezzo con la nuova dottrina nucleare — e mettere in sicurezza l’Ucraina con una deterrenza sufficiente a contenerlo. Il primo nodo è nelle mani di Trump. Per il secondo, gli europei devono fare la loro parte in tema di difesa».
(Qui l’editoriale di Marco Imarisio «L’auto senza freni di Putin»)

L’intervista a Merkel

Di Putin, Ucraina, Trump, Europa e molto altro parla l’ex cancelliera tedesca Angela Merkel nella lunga intervista, tutta da leggere, che ha concesso a Paolo Valentino e Mara Gergolet in occasione dell’uscita delle sue memorie, scritte con Beate Baumann e intitolate Libertà (in Italia le pubblica Rizzoli). Del presidente russo dice, ad esempio: «La più grande gioia della mia vita — la fine della Guerra Fredda, la caduta del Muro, la riunificazione tedesca e l’unità dell’Europa — per lui è legata alla peggiore disgrazia del XX secolo, la fine dell’Unione Sovietica. Le nostre vedute erano quindi diametralmente opposte. Putin cercava di fare della Russia di nuovo una grande potenza. Ma non era in grado di farlo sul piano economico, attraverso il benessere per tutti. Ci ha invece provato con i metodi imparati nel servizio segreto, il Kgb, attraverso la forza militare e il nazionalismo russo». «Io conoscevo molto bene le intenzioni del presidente Putin. Le ha sempre espresse sia pubblicamente che nei colloqui riservati. Sapevo che non avevamo a che fare con un amico dell’Europa. La questione era solo come reagire. La mia risposta non è stata di non avere più alcun rapporto con Putin, ma piuttosto di cercare di impedire l’invasione dell’Ucraina attraverso colloqui, a volte anche molto polemici nei quali non ho usato alcun giro di parole. Per un certo periodo ha funzionato. Con l’inizio della guerra russa contro l’Ucraina, la situazione è fondamentalmente cambiata».

Quanto al come e al quando quella guerra potrebbe finire dice: «Sulla trattativa, naturalmente nulla deve passare sopra la testa dell’Ucraina. Allo stesso tempo penso però che i molti Paesi che sostengono l’Ucraina debbano decidere insieme a essa quando si potrà discutere con la Russia di una soluzione diplomatica. Non può essere solo Kiev a decidere. Quando questo succederà, non essendo più attiva in politica, non sono in grado di dirlo».

Merkel smentisce «categoricamente» di aver chiesto o provocato la caduta del governo Berlusconi nel novembre 2011. E aggiunge: «Con Silvio Berlusconi ho lavorato più amichevolmente di quanto molti pensavano. Si adoperava sempre per raggiungere comuni compromessi europei. Questo l’ho apprezzato. Durante la crisi dell’euro la cooperazione con lui si è fatta più difficile».

Di Donald Trump dice invece che «vede tutto dal punto di vista dell’immobiliarista che è stato». Per lui «non ci sono mai situazioni “win win”, dove entrambi i partner di un accordo ottengono vantaggi. Per lui o l’uno o l’altro deve ottenere un profitto. È un’idea che non condivido. Penso che abbiamo concluso molti accordi nel mondo, vantaggiosi per entrambe le parti. A differenza di lui, credo nella forza dei compromessi. La cosa più importante è cooperare con Trump, da partner e rappresentanti di un Paese, liberi da paure e sicuri di sé, difendendo in modo chiaro i propri interessi — nel mio caso erano quelli tedeschi ed europei — così come lui difende i suoi».

Quanto a Mario Draghi e al «Whaterver it takes» che salvò l’euro, l’ex cancelliera dice che decise da solo, senza avvertirla: «Ha compreso al 100% che non mi sarei mai intromessa nella politica monetaria. Nel suo ruolo di presidente della Bce ha agito con grande coraggio. Conosceva i mercati finanziari e sapeva che nessuna riforma da sola, per quanto valida, li avrebbe soddisfatti, a meno che non avessimo introdotto politicamente gli eurobond. Ma sapeva anche che io non li avrei mai accettati, perché non sarebbe stato compatibile con le basi giuridiche dell’euro. Per questo motivo ha sfruttato appieno il margine di manovra a sua disposizione».

Altre notizie 

  • Dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ieri è arrivato un altro  richiamo ai magistrati  a «non disapplicare norme di legge» (con riferimento «voluto» al caso degli immigrati spediti in Albania e poi riportati in Italia): in caso di dubbio «di una contraddizione con la legge fondamentale dello Stato, la stessa Costituzione – ha detto Nordio – pone il rimedio: si vada davanti alla Corte costituzionale». Intanto, però, dai centri in Albania per il trattenimento dei migranti, privi di ospiti, andranno via entro domani anche tutti gli operatori sociali. «Non è una dismissione — minimizzano dal Viminale — ma una rimodulazione in base alle esigenze del momento. I centri restano aperti e vigilati». Ma Riccardo Magi di +Europa ironizza: «Il governo è riuscito nell’impresa dei rimpatri. Non dei migranti, ma degli operatori mandati in Albania. Un fallimento epocale, per fortuna». Il 4 dicembre la Cassazione dovrà decidere se i giudici possano mantenere quella discrezionalità nella valutazione di «Paese sicuro», alla base delle pronunce contrarie ai trasferimenti. Nell’attesa, si pronostica che non ce ne saranno di nuovi.
  • Oggi si apre, al Palazzo dei congressi dell’Eur, la Costituente del M5S. E a destare preoccupazione tra i militanti, scrive Emanuele Buzzi, non è solo un eventuale blitz del garante, Beppe Grillo. Dopo oltre 36 ore dall’apertura delle votazioni il quorum dei partecipanti non è stato ancora raggiunto.
  • Italoamericana, ex procuratrice generale della Florida dal 2011 al 2019 (prima donna in questo ruolo), la 59enne

    Pam Bondi, tra le fedelissime di Donald Trump, è stata indicata da quest’ultimo come attorney general, ovvero capo del dipartimento della Giustizia. La scelta è arrivata poche ore dopo che l’ex deputato della Florida Matt Gaetz, nominato otto giorni prima per quel posto, aveva fatto un passo indietro: era stato indagato per festini con droghe e ragazze, tra cui una minorenne; si dichiara innocente ma ha detto ieri che non tornerà al Congresso. Ieri sera i media americani citavano fonti informate per anticipare che Trump ha scelto  Scott Bessentmanager di hedge fund e molto noto a Wall Street, come segretario del Tesoro (Elon Musk non tifava per lui).

  • Ieri il bitcoin – re delle criptovalute – ha toccato un massimo di 99 mila 400 dollari, salvo poi ripiegare leggermente sotto i 99mila. Dal 6 novembre scorso, data della vittoria di Donald Trump, il rialzo è stato del 43%. Da inizio anno il balzo è addirittura del 136%. Alla base di questa euforia le dichiarazioni del neopresidente Usa, che ha promesso di fare degli Stati Uniti la capitale delle criptovalute. Di fronte a questa accelerazione speculativa la Consob prende posizione: «I bitcoin e le altre criptovalute sono strumenti altamente speculativi. Sotto non c’è nulla. Non c’è un debitore. Se mai un giorno dovesse scoppiare la bolla, nessuno venga a chiedere risarcimenti alle autorità o ai governi».
  • «Mia moglie l’ho ammazzata io. Abbiamo litigato, ho afferrato la prima cosa che mi è capitata fra le mani e l’ho colpita in testa». Dopo sei mesi di carcere, Igor Sollai ha confessato il femminicidio di Francesca Deidda — sparita nel nulla lo scorso maggio a Cagliari. Il corpo era stato ritrovato dopo due mesi dentro un borsone nascosto in un bosco. L’arma del delitto, un martello, non ancora ritrovato.
  • Alessandro Basciano, 35 anni, influencer con oltre un milione di follower su Instagram e personaggio tv, è stato arrestato per stalking nei confronti della sua ex compagna Sophie Codegoni, 23enne modella, anche lei influencer (1,2 milioni di follower) che ha conosciuto durante la trasmissione «Il Grande Fratello Vip».
  • Oggi si tiene «Soldi, corpi, famiglie. Muoviamoci contro la violenza sulle donne», la giornata contro la violenza di genere al cinema Anteo di Milano. A due giorni dal 25 novembre (qui lo Speciale), Anteo, Cadmi con il Corriere della Sera e La27ora uniscono le forze contro la violenza di genere con un palinsesto che intreccia intrattenimento, riflessioni e politica. In Italia, una donna su 5 non ha un conto corrente. Che è un termometro dell’indipendenza economica di un individuo. E allora: come si possono creare le condizioni perché tutte le donne ne abbiano uno? Se ne parlerà alle 17 con l’intervento anche del sindaco di Milano Beppe Sala (qui il programma e qui come iscriversi). Un’altra iniziativa, la campagna #NessunaScusa lanciata dalla deputata Mara Carfagna, ha raccolto l’adesione bipartisan di tanti politici che — da Arianna Meloni a Elly SchleinGiuseppe ConteMaria Elena Boschi e altri — hanno denunciato con degli interventi video ogni forma di violenza sulle donne.
  • Guido Marangoni con la sua app «Vite Vere» ha vinto i premi di Most impactful app e People’s choice al concorso mondiale di Google «Gemini Api developer 2024»: selezionata fra oltre tremila proposte arrivate da ingegneri e sviluppatori di tutto il mondo. L’app, grazie all’intelligenza artificiale di Google, aiuta le persone con disabilità intellettive a gestire una casa senza i genitori.  Scattando una foto può riconoscere una cucina in disordine o una camera da letto da riassettare, e fornire indicazioni specifiche per sistemare l’ambiente in cui vive, si muove, lavora. Marangoni, 54 anni, è un ingegnere informatico, insegna all’Università di Padova, è anche scrittore, cabarettista passato da Zelig a palchi di tutta Italia e soprattutto è papà di Anna, vulcanica preadolescente nata con la sindrome di Down.
  • L’Italia di Sinner, Berrettini & Co. si gioca oggi a Malaga,  contro l’Australia, l’accesso alla finale di Coppa Davis (inizio alle 13). In caso di vittoria, incontrerà l’Olanda, che ha eliminato la Germania per 2 a 0.
  • Oggi torna in campo anche la serie A. Il big match è Milan-Juve, alle 18, preceduto da Verona-Inter (ore 15) e seguito da Parma-Atalanta (20.45).

Da leggere anche:

Il corsivo di Federico Fubini sui noleggi con conducente e «quei venti minuti che mettono l’Italia fuori dall’Europa».

La rubrica settimanale di Paolo Lepri, oggi dedicata alla parlamentare laburista britannica Yuan Yang e al suo appello a stare in guardia sull’autoritarismo della Cina

L’articolo, nelle pagine della cultura, con cui Maurizio de Giovanni spiega perché ha deciso di dire addio al suo commissario Ricciardi.

L’intervista di Barbara Visentin a Francesco Guccini, che si definisce «cantautore per caso».

Il Caffè di Gramellini – Forza Italie

Sarà sicuramente una prosaica questione di sponsor, eppure i due azzurri diversi delle magliette di Sinner e Berrettini raccontano l’Italia meglio di un trattato. Siamo una nazione di singolaristi che nelle emergenze sa diventare squadra e vincere in rimonta. Non chiedeteci però di esserlo sempre: dovremmo mettere la stessa maglietta. E la visiera del cappellino dalla stessa parte. Impossibile, abbiamo troppo ego e troppa fantasia. Quando chiesero a Niccolò V per quale ragione preferisse circondarsi di collaboratori stranieri, quel Papa rinascimentale nato a Sarzana rispose: «Il francese e il tedesco, dove li metti stanno. Gli italiani invece hanno l’animo troppo grande e tuttavia vorrebbero salire ancora». Un difetto che è anche un pregio. Dipende dalle circostanze.

Grazie per aver letto Prima Ora e buon fine settimana.

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(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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