Mons. Olivero (Cei), “collaborare nella differenza, per essere nelle società fermento di pace”
Come ha ricordato ieri Papa Francesco all’Angelus, il 28 ottobre segna l’entrata nel 60° anniversario della Dichiarazione Nostra Aetate del Concilio Ecumenico Vaticano II, promulgata da Papa Paolo VI il 28 ottobre 1965. La Dichiarazione ha segnato una svolta irreversibile nei rapporti tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo, sulla scia dei passi intrapresi da san Giovanni XXIII, e ha cambiato in modo significativo l’approccio del cattolicesimo nei confronti delle religioni non cristiane. È ritenuto un testo fondativo per il dialogo con le altre fedi religiose, frutto di un lungo lavoro redazionale. Vaticannews ricorda che su 2.132 votanti, i sì o placet dei padri conciliari furono 2.041, 88 i non placet, 3 i voti nulli. Al termine della preghiera romana, ricordando l’anniversario, Papa Francesco ha detto: “Soprattutto in questi tempi di grandi sofferenze e tensioni, incoraggio quanti sono impegnati a livello locale per il dialogo e per la pace”. Abbiamo sentito mons. Derio Olivero, presidente della Commissione Cei per l’ecumenismo e il dialogo.
Il Papa ha parlato di “tempi di grandi sofferenze e tensioni”. Lei ravvede questo clima anche nel nostro paese?
Come abbiamo scritto nel messaggio per la 36ª Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei (17 gennaio 2025), dopo il 7 ottobre, i rapporti tra cattolici ed ebrei in Italia sono stati faticosi e difficili, con momenti di sospetto, incomprensione e pregiudizi. Mi sono trovato varie volte con i rabbini dell’Ari e con la Presidente dell’Unione delle comunità ebraiche in Italia, Noemi Di Segni per cercare di mantener vivo un dialogo che rischiava di spezzarsi. Gli ebrei si sono sentiti non sufficientemente sostenuti anche dalla Chiesa cattolica e questo ha generato dei sospetti, addirittura delle critiche, rispetto ad una rinascita di antisemitismo. Ma nonostante tutto, abbiamo creduto che il dialogo andava portato avanti. E seppur con molta fatica, il dialogo non si è interrotto.
Alla luce di queste difficoltà, cosa rappresenta oggi Nostra Aetate? Che messaggio lancia
In una situazione così tesa, credo sia estremamente interessante rileggere il numero 1 del documento laddove ribadisce il dovere della Chiesa cattolica di “promuovere l’unità e la carità tra gli uomini, ed anzi tra i popoli”, valorizzando “in primo luogo” “tutto ciò che gli uomini hanno in comune e che li spinge a vivere insieme il loro comune destino”. E’ un obiettivo grandioso che continua ad essere assolutamente vero oggi. Come religioni, dobbiamo riflettere sempre di più sul lavoro che stiamo facendo anche in Italia e quale contributo stiamo dando alla società, alla coesione sociale, al rapporto tra i popoli.
Il Papa ieri all’Angelus ha infatti incoraggiato “quanti sono impegnati a livello locale per il dialogo e la pace”. Come si fa a diventare operatori di dialogo e di pace e vincere i pregiudizi e i sospetti?
È stato ribadito in modo forte, nel documento firmato ad Abu Dhabi da papa Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar che il primo passo per la fratellanza è la conoscenza seria e reciproca, perché aiuta a vincere i pregiudizi. Nostra Aetate al numero 4 aggiunge alla mutua conoscenza, la stima, cioè il riconoscimento del valore dell’altro pur così diverso. Conoscenza, stima e riconoscimento dell’altro. Sono questi i presupposti del dialogo perché aprono alla collaborazione nella differenza. Se noi come uomini e donne di religioni diverse, impariamo a rispettarci e a collaborare nella differenza e nonostante le differenze, sicuramente saremo nelle società in cui viviamo, un grande fermento di pace.
La guerra non è più un evento del passato. E’ tornata, come dice papa Francesco, a pezzi nel mondo e inevitabilmente, incide nelle nostre vite. Che cristiani dobbiamo diventare?
Dobbiamo sempre più diventare dei cristiani “cattolici”, che vuol dire aperti a tutto il mondo, inclusivi. Non discriminatori né autoreferenziali. Purtroppo, le guerre scoppiano quando si guarda solo a se stessi e ai propri interessi. Essere oggi realmente “cattolici”, significa essere aperti al servizio di tutti e all’accoglienza. C’è un testo di Sergio Massironi che ha un titolo molto interessante: “Cattolico cioè incompleto. Un’identità estroversa. Un’appartenenza antitotalitaria”. Noi dovremmo imparare a essere questo tipo di cattolici, cioè sentirci incompleti, senza i fratelli e le sorelle, compresi i fratelli e sorelle di altre regioni, compresi i fratelli e le sorelle non credenti. Se non siamo aperti a tutti, siamo incompleti perché questo è Cristo.
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