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Esiste davvero un “Paese sicuro”? Diritto e politica non hanno ancora una risposta

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“Al momento non c’è una lista europea sui Paesi terzi sicuri; gli Stati membri hanno liste nazionali. Ma è previsto” che tale lista ci possa essere e “ci lavoreremo”. Così si è espresso il servizio dei portavoce della Commissione nelle ore tribolate dell’affaire Italia-Albania, quelle del ritorno dei migranti dal Paese delle Aquile al Belpaese, fino al nuovo decreto del governo che ha definito sicuri 19 Paesi dove poter rimandare i migranti che si ritiene a priori non abbiano diritto alla protezione internazionale.

Rispetto dei diritti fondamentali. Vicenda complicatissima, tra decisioni nazionali, diritto internazionale, normative Ue, pronunciamenti della Corte di giustizia europea. Al fondo la questione è una, più “politica” che giuridica: ridurre al minimo l’accoglienza di chi arriva da Africa, Asia e Sudamerica. Le opinioni pubbliche apparentemente premono in tale direzione e i governanti cercano adeguate soluzioni. Del resto il diritto internazionale e il diritto dell’Unione europea (procedure d’asilo) considerano un Paese sicuro quando vi è un solido sistema democratico, che rispetta i diritti fondamentali, nel quale non vi sia alcuna forma di persecuzione, nessuna tortura o pene o trattamenti inumani o degradanti, nessun conflitto armato in corso.

Sicurezza per tutti e per ciascuno. Ma – elemento essenziale – non ci possono essere neppure respingimenti “automatici” delle richieste d’asilo: perché

le domande devono essere valutate su base individuale, ovvero caso per caso.

Un Paese può essere sicuro per la maggioranza della popolazione, o per una parte di essa; ma può perseguitare minoranze etniche, religiose, o sulla base dell’orientamento sessuale. Sono del resto innumerevoli i casi di cronaca in cui Paesi ritenuti democratici si accaniscono contro le donne, contro gli stranieri, contro gruppi minoritari. Non a caso il presidente emerito della Corte costituzionale italiana, Cesare Mirabelli, in questi giorni ha ripetuto che “occorre passare da un’insicurezza tabellare a un’insicurezza specifica in rapporto a un singolo individuo”, mettendo sostanzialmente in discussione l’idea stessa di Paese sicuro. La sentenza della Corte di Giustizia europea cui si fa riferimento in questi giorni stabilisce che un Paese per essere “sicuro” lo deve essere per tutti – per ogni cittadina e cittadino – e su tutto il territorio nazionale. Si individua dunque una nazione dalla quale non ci sarebbero reali ragioni per fuggire e chiedere asilo altrove (resta ovviamente aperto tutto il dibattito sulle altre motivazioni per cui si emigra, anche forzatamente: fame, mancanza di cure sanitarie, cambiamenti climatici, carenza di opportunità scolastiche o lavorative…).

Elenchi assai discordanti. Rimane il fatto che la materia è assai “scivolosa”. Ad esempio, ci si ricorda che nel 2015, nel pieno della cosiddetta “crisi dei rifugiati” registrata allora in Italia e in Europa, la Commissione guidata da Jean-Claude Juncker tentò di definire una lista europea dei Paesi sicuri, ma senza riuscirvi. Ogni Paese ne aveva adottata una, con forti divergenze ed elenchi discordanti. Ancora oggi succede così: ogni Stato membro Ue ha la sua lista. Ad esempio in quella della Germania vi appaiono attualmente solo nove Paesi sicuri.

Egitto, Marocco, Turchia, Cina…? Tra gli Stati definiti sicuri dal Governo italiano compaiono Paesi in cui alle donne non è garantita piena parità rispetto agli uomini (Egitto, Gambia); in altri non tutte le fedi religiose hanno eguale dignità e dunque la medesima libertà di culto e sicurezza personale per tutti in fedeli (lo stesso Egitto o il Marocco); i rom non sono adeguatamente tutelati in Kosovo; e neppure i kosovari in Serbia… I casi si potrebbero moltiplicare. Chi in buona fede potrebbe considerare “sicura” la Turchia, la Bielorussia, la Georgia, persino la Cina Ci sono Stati che si accaniscono contro gli avversari politici, contro i dissidenti, contro i giornalisti, contro i difensori dei diritti umani.

Definizioni discrezionali. Si sa, peraltro, che la definizione di Paese sicuro ha implicazioni notevolissime e concrete, perché influisce sulle procedure per ottenere o negare l’asilo, e sui rimpatri. Così l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) si è espresso su questa materia, sottolineando che ogni richiesta di asilo “deve essere esaminata pienamente e individualmente nel merito, in conformità con determinate garanzie procedurali”; al richiedente asilo va sempre concessa la possibilità di precisare le motivazioni per le quali il suo stesso Paese non è, nel suo specifico caso, sicuro. Più volte le organizzazioni internazionali che si occupano di diritti umani hanno sostenuto che nessuno può veramente garantire che un Paese sia sicuro per tutti i suoi cittadini. Il fatto stesso – come già detto – che alcuni Stati considerino sicure talune nazioni e non altre conferma che si tratta di definizioni discrezionali, influenzate da elementi di natura politica, e sottoposte al mutare delle condizioni interne di quegli stessi Paesi.

Un’ultima considerazione. Il nuovo Patto Ue su migrazione e asilo, varato quest’anno e che dovrebbe entrare a regime nel 2026, non prevede, neppure questa volta, un elenco condiviso di Paesi sicuri. La questione rimane aperta.

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