Vagolare e Peana le parole di oggi a cura del prof. Innocenzo Orlando
Vagolare
va-go-là-re (io và-go-lo)
Significato Vagare in maniera continua, lieve, incerta
Etimologia da vagare, voce dotta recuperata dal latino vagare, derivato di vagus ‘vago’.
- «Mi ha risposto vagolando fra giustificazioni inconsistenti.»
Peana
pe-à-na
Significato Canto corale in onore di Apollo o di altre divinità; discorso di esaltazione
Etimologia voce dotta recuperata dal latino Paean, dal greco Paián, epiteto di Apollo, letteralmente ‘guaritore, risanatore’.
- «Le ho fatto un peana per come mi ha sistemato l’auto.»
L’amministrazione locale sistema doverosamente un’inezia, e subito qualche adulatore le canta un peana come avesse compiuto chissà che cosa; il peana della vittoria sportiva si sente per tutte le vie della città; e la zia ha sempre pronto un peana per il nipote per cui stravede.
Questa è la dimensione in cui vive oggi il peana: il discorso celebrativo, che loda, o che esalta nella vittoria. Si capisce che la radice è antica, e in effetti il tono del suo uso è elevato — be’, se parliamo del peana della vittoria sportiva, forse copriamo qualche spigolo e ruvidità. Ma ecco, a parte queste considerazioni probabilmente il perché di quest’uso non è chiaro.
‘Peana’ è in origine un epiteto, quindi un attributo di una divinità che si fa appellativo, alla lettera ‘il risanatore, il guaritore’. Ormai lo abbiamo imparato: le divinità del pantheon classico non sono chiare e distinte, nello scroscio dei secoli, come quelle di un mondo fantasy dei nostri giorni. Alcune divinità antiche confluiscono in altre, i nomi vengono passati e soppiantati, credenze remote vengono coperte da credenze più recenti di maggior successo, e su tutto trionfano i racconti, che se sono memorabili e celebri fissano concetti e divinità in una certa forma per i secoli a venire.
Dapprima Peone o Peana è una divinità della guarigione — ma la sua consistenza è difficile da afferrare. Non sappiamo nemmeno perché si chiamasse così, abbiamo solo degli indizi che fosse una divinità micenea. Però lo troviamo in Omero in una veste molto particolare: quando Diomede ferisce Ares (ne parlammo considerando l’icore, il sangue degli dèi), è Peone a curarlo — una sorta di dio medico degli dei. Ma dire che è un olimpico secondario è dire poco. Tant’è che un’altra divinità di prima fila, con cui aveva delle analogie, ne ottiene per slittamento il nome. È Apollo. La definizione storica più rappresentativa del peana è proprio quella di canto corale in onore di Apollo.
Quel ‘per slittamento’ non è casuale e merita una considerazione: Apollo, con la sorella Artemide, era (anche) divinità delle pestilenze. In quanto divinità arciere erano figura del dardeggiare della malattia e della morte. Ebbene, capiamo che c’è una certa piaggeria nell’invocarlo come risanatore, oltre che una certa logica.
Quando poi il titolo di Peana, in epoca più tarda, passerà ad Asclepio, dio della medicina, la cosa tornerà però ancora più logica. Inoltre Apollo è un dio vincente, sconfisse Pitone, e il fatto che il peana sia anche un canto di vittoria è a suo modo conseguente — anzi, per simile criterio di scongiuro anticipatorio, è stato anche un canto di battaglia.
Certo, questi intrecci del passato hanno spesso l’aria di un groppo; ma noi consideriamo in un lampo istantaneo accadimenti che si sono srotolati nella pazienza di singoli giorni, brevi come i nostri e innumerevoli. Quindi è normale che i simboli e le idee abbiano subito mutazioni delle più frastagliate, come linee di costa.
Ci resta questa idea di canto magico, canto che guarisce, canto che ringrazia, canto che celebra — e quindi canto che loda ed esalta. Oltre, dalle nostre parti e nei nostri tempi, quando il canto non si canta e non si compone in versi, il peana resta il discorso con questi caratteri: riflesso elegante e fine, apollineo e non di rado ipocrita, di un giubilo di un tempo che fu, in guarigione e in trionfo
(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)
Anche questo è un rione di significati che ci stanno a cuore. È abitato da molte parole che portano i loro diversi contributi per sfaccettare il grande concetto dell’andare intorno attardandosi senza meta chiara, ora piacevolissimo ora vagamente minaccioso, ora ricercato ora poco promettente. Ma non buttiamoci subito nel carosello dei sinonimi del vicinato, stiamo sul vagolare, perché ha dei tratti magnifici, da valorizzare.
Sui dizionari si trova scritto che è un diminutivo, un frequentativo, un intensivo di ‘vagare’ — alterazioni differenti, anzi si direbbe perfino contrarie, che però qui non si escludono, anzi. Com’è che si esalta il significato del vagare, come si rende più forte?
Non appesantendo il suo passo, non rendendolo più deciso e strepitoso, non ingrossandolo, accrescendolo: il vagare si rafforza quando la sua incertezza si fa più delicata, quando il suo girare si alleggerisce e attenua, quando è più titubante e fioco e perso.
Il vagare ha anche un tratto maestoso: pensiamo alle nubi che vagano nel cielo, al mostro che vaga in cerca di preda, ai corpi che vagano nello spazio — e vaga la fantasia.
L’assenza di meta chiara, o perfino di costrutto, non è necessariamente un male. Quando vaghiamo nel parco con gli occhi fra le fronde degli alberi, o a passi lenti nel canto nelle cinciallegre, l’assenza della falcata marziale diretta verso un obiettivo non è un problema, anzi. Ma il vagolare ci offre una versione particolarmente spenta del vagare, poco serena, di piccolo cabotaggio, di levità evanescente, magari vacua, magari proprio timorosa.
Se scrivo che dopo la discussione sono rimasto a vagolare in strada, che dei pensieri mi stanno vagolando nella mente, se racconto che all’inizio della caccia al tesoro il gruppo è rimasto a vagolare nei dintorni, do delle immagini molto diverse da quelle che darei se fossi rimasto a vagare per strada, se i pensieri vagassero per la mente, il gruppo vagasse nei dintorni. Do immagini di difficoltà, di tentennamento, di irresolutezza — che spiccano per leggerezza e hanno anche la loro tenerezza, beninteso, al contrario della possibilità di forza e tranquillità che ha il vagare.
E così, nella sua precisione e nella sua ricercatezza, si distingue nel vicinato anche dai più sostenuti contegni letterari dell’errare, dalle dimensioni più stabili ed esistenziali del vagabondare, dalla didascalia circoscritta dell’aggirarsi o a quella da fiera del girellare, dal gironzolare da cane che fiuta a terra qua e là con l’interesse che noi abbiamo per il pettegolezzo Fino ai più scoperti passeggiari e camminari, che mostrano il viso più bello e normale e perciò accettato di questo stupendo, contraddittorio e controverso andar d’intorno privo dei perché che di solito ci muovono.