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Col fiato sospeso

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Le distrazioni che hanno accompagnato le nostre vacanze non sono riuscite a farci estraniare dai tanti drammi che stanno tenendo il mondo col fiato sospeso. Abbiamo atteso, invano, la notizia della fine della guerra ed è già un miracolo che non sia arrivata l’altra – questa sì, ancora più grave- dello scoppio della terza guerra mondiale. Si ha l’impressione che per i due conflitti più in vista – non dimentichiamo che nel mondo si combattono altre 56 guerre!- non vi siano soluzioni alternative a una guerra infinita. Di fronte al fallimento di ogni mediazione e alla sconcertante impotenza delle organizzazioni internazionali, ogni soluzione, in Ucraina come nel Medio oriente, sembra lasciata alle determinazioni delle parti in causa. È come se gli attori dei due conflitti non abbiano fretta a chiudere l’accordo, preferendo mantenere tesa “la corda” per rafforzare le rispettive posizioni. E intanto nelle popolazioni dei Paesi in conflitto affiora la stanchezza per il prolungarsi della guerra e, fra gli Stati europei, le divisioni sulle modalità di impiego delle armi fornite a Zelensky. Il 24 febbraio del 2022, con l’invasione dell’Ucraina, Putin non ha commesso soltanto un grave atto di aggressione nei confronti di uno Stato sovrano, provocando un milione di vittime fra morti e feriti (di cui 200 mila russi), ha interrotto, anche, un lungo periodo di pace in Europa che durava dal 1945, infrangendo, così, quel convincimento che la guerra sia soltanto un ricordo e non una realtà con la quale fare i conti. Inevitabili le reazioni del Paese aggredito, ma anche quelle dei Paesi Nato, convinti che, se la Russia dovesse prevalere, potrebbe estendere la sua iniziativa ad altri Stati limitrofi. Da qui la decisione di bloccare Putin “a tutti i costi” e di arrivare ad una soluzione, pur nella convinzione che qualsiasi accordo potrebbe essere rimesso in discussione il giorno dopo. Chi può garantire, infatti, per Putin? Ancora più grave la situazione nel Medio oriente, dove oltre alle ragioni storiche e politiche pesano anche motivazioni religiose (il leader di hezbollah è riconosciuto come “il segretario del partito di Dio”). “È particolarmente preoccupante – ha detto il Papa a Giacarta lo scorso 4 settembre – che la religione sia spesso strumentalizzata in questo senso, causando sofferenze a molti, soprattutto donne, bambini e anziani”. E che sofferenze! L’attacco terroristico a Israele, messo in atto dall’estremismo islamico il 7 ottobre del 2023, oltre a causare l’uccisione di circa 1.200 persone e la cattura di 240 ostaggi, ha provocato la scontata, anche se sproporzionata, reazione di Israele: case rase al suolo, crimini orrendi e 41.000 vittime a Gaza. «Porremo fine alla guerra, ha detto Netanyahu, solo dopo aver raggiunto tutti gli obiettivi, compresa l’eliminazione di Hamas e il rilascio di tutti i nostri ostaggi». Speculare la posizione di Hamas che, mossa da antico odio nei confronti del nemico, non intende riconoscere allo Stato d’Israele neppure il diritto di esistere. I contendenti non sentono ragioni: combatteranno finché il nemico non venga annientato. Un’ipotesi questa che, essendo irrealizzabile, prelude ad una guerra infinita. Anche perché sia Israele che Hamas, come Putin e Zelensky, stanno sperimentando quanto sia difficile una vittoria sul campo. In queste condizioni, si rafforza, peraltro, la consapevolezza dell’inutilità della guerra e la necessità di pervenire presto alla soluzione dei conflitti, possibilmente prima delle elezioni americane. È opinione diffusa, infatti, che se vince Kamala Harris non cesseranno gli aiuti a Zelensky; al contrario, in caso di vittoria di Donald Trump, gli aiuti all’Ucraina verrebbero meno, a tutto vantaggio di Putin. Sul fronte medio orientale, per converso, una vittoria di Harris renderebbe più pressante l’azione degli Stati Uniti per una tregua, mentre la vittoria di Trump farebbe sentire Israele meno vincolato a perseguire questa strada. Tutto segnato, allora Nel momento in cui stendiamo queste note, appare azzardato formulare previsioni. “Ci è rimasta solo la preghiera, ha affermato il Patriarca di Gerusalemme, Pizzaballa. La comunità cristiana deve portare dentro il dibattito pubblico la possibilità del perdono. Forse ora non si può fare. Bisogna attendere e lavorare a livello personale, comunitario e pubblico».

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