Rischio escalation. Buonomo (Lateranense), “nessuno esce vittorioso da un conflitto”
Libano, di nuovo sotto attacco. Dopo le migliaia di cercapersone scoppiate martedì 17 settembre alla stessa ora in tutto il Paese, nel pomeriggio di ieri un’altra ondata di deflagrazioni ha scosso i cittadini libanesi. A esplodere questa volta sarebbero state radio portatili, walkie-talkie, macchine per impronte digitali e pannelli solari, usati dai militanti di Hezbollah. Esplosioni sono state udite nella periferia meridionale di Beirut, così come a Nabatieh, Tiro e Saida. La conta dei feriti e dei morti è purtroppo anche questa volta provvisoria. Si parla di almeno 20 vittime e circa 450 feriti. Sui “possibili scenari” che questi attacchi, purtroppo stanno aprendo nell’intera regione, il Sir ha chiesto un parere a Vincenzo Buonomo, ordinario di diritto internazionale nella Pontificia Università Lateranense.
Per la prima volta siamo di fronte ad un attacco cibernetico sferrato in maniera mirata e contemporanea. Che idea si è fatto? Perché ora Perché così?
Un primo dato è che non credo si tratti di un episodio isolato, perché quanto avvenuto va inserito in un conflitto aperto nel quale per combattere si utilizzano in modo massiccio tecnologie vecchie e nuove. Che si tratti di un cyberattacco o di una tecnica già utilizzata in altre occasioni, fa solo capire come le strategie e le modalità di guerra, specie in un conflitto asimmetrico che vede da un lato uno Stato dall’altro gruppi terroristici, siano fortemente collegate alle tecnologie sempre più innovative. Quanto avvenuto conferma come nei conflitti in corso l’uso di intelligenza artificiale o ancora il poggiare su algoritmi i sistemi di puntatura o di individuazione degli obiettivi, sia divenuto strutturale. E qui la riflessione non è sulla tecnica o sulla cibernetica, quanto piuttosto sull’imputare le responsabilità degli atti di guerra alla macchina e alla tecnologia invece che al fattore umano.
Di umano c’è solo il bersaglio, l’obiettivo finale.
Come interpretare questa mossa di Israele e quali le conseguenze sullo scacchiere mediorientale a cominciare dal Libano stesso.
Siamo ancora una volta di fronte ad un’azione compiuta sul territorio di due Stati – oltre al Libano c’è anche la Siria – ma non rivolta direttamente agli Stati colpiti, bensì indirizzata contro gruppi armati che combattono da quei territori o hanno lì le loro basi. Non penso si possa parlare di estensione del conflitto, perché è già esteso dal momento che non coinvolge solo l’area mediorientale, ma attori anche lontani geograficamente, dagli Usa ai Paesi del Golfo senza tralasciare interessi russi e cinesi. Piuttosto quello che si allontana sono percorsi se non di pace, almeno di cessate il fuoco.
E questo anzitutto a danno della condizione precaria di milioni di persone: lo spostamento forzato di popolazione in tutta l’area del Medio Oriente è uno dei grandi effetti, il cambiamento etnico-religioso delle aree di Libano e Siria (e già in precedenza dell’Iraq) è la risultante che maggiormente pesa sul futuro di quelle terre.
Quanto è rischioso colpire in Libano?
Colpire il Libano non è solo rischioso sul piano militare e forse territoriale. Significa soprattutto porre fine ad un esempio virtuoso di coesistenza e convivenza.
La storia e l’oggi mostrano che in quell’area nessuno esce vittorioso da un conflitto, da una guerra, ma tutti si ritrovano più deboli, privati di qualcosa che può essere territorio, valori, identità, visione religiosa, patrimonio culturale, capacità economica.
C’è una correlazione tra questa azione e la “vigilia” del 7 ottobre?
Il prolungarsi dell’azione militare, l’uccisione degli ostaggi, il numero di vittime civili che si registra, fa pensare che non bisogna attendere il 7 ottobre o la sua vigilia per compiere operazioni sofisticate o gesti particolari. La tecnica sin qui perseguita tende a prolungare l’uso della forza in tutte le sue forme, nella azione bellica, nelle tensioni in tutti i Paesi dell’area, nel rendere vani gli sforzi per un piano di pacificazione.
Che cosa significa questo attacco per l’amministrazione Biden e anche per la prossima
Per i Paesi geograficamente esterni, ma politicamente interni al conflitto, quanto avviene significa dover ammettere un’ulteriore impotenza e forse percepire anche un certo smarrimento. Non si tratta di una sconfessione degli scenari di soluzione proposti, ma dell’impossibilità di far comprendere alle parti in lotta che proseguire su questa strada non offre soluzioni, anzi aggrava i problemi e amplia le contrapposizioni. Ma dobbiamo anche accettare l’idea che siamo ormai in un contesto diverso da quello nel quale le grandi potenze riuscivano a “governare” il conflitto mediorientale, indipendentemente da chi abitava le Cancellerie.
Perché l’Europa è la grande assente?
Non credo che singolarmente i Paesi della regione europea siano assenti. La “questione d’Oriente” non è mai tramontata nell’attività e nell’immaginario delle diplomazie dell’antico Continente. Che poi manchi una presenza dell’Unione Europea è altra cosa, o meglio è la conferma che la politica estera comune non è un’opzione, ma una ragion d’essere dell’Unione stessa, del suo futuro. Ma in questo momento probabilmente sia in una fase di introspezione, l’Unione guarda al suo interno e lo fa con la preoccupazione di chi si rende conto che l’integrazione è sotto assedio.
Quale via diplomatica invece si potrebbe avviare per evitare a tutti i costi una escalation? La guerra, soprattutto in quella regione, sarebbe una sconfitta per tutti…
La guerra è una sconfitta in ogni caso e ad ogni latitudine. Come dicevo prima: non ci saranno vincitori, come non ci sono mai stati. Si ritornerà ad una pace armata che può saltare in ogni momento e per i motivi più diversi. L’azione diplomatica stenta a trovare interlocutori capaci di guardare in un altro modo l’assetto della regione, che è poi avere una visione del futuro. Un solo esempio: la formula due popoli due Stati in Terra Santa è in piena crisi e va pensato come riprenderne il fondamento o come proporre nuovi schemi. …ma la soluzione non è la cibernetica, l’azione terroristica o un’attività militare che allarga i fronti di guerra. Quelli sono episodi o modalità di una guerra e tali restano. Come primo passo non sarebbe da riportare la crisi nelle sedi multilaterali, come avvenuto in altri momenti altrettanto tragici che sembravano non lasciare a quei popoli, a quelle comunità la speranza di guardare al domani?
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