Bibliomanzia e Panacea
Bibliomanzia
bi-blio-man-zì-a
Significato Divinazione praticata aprendo a caso un libro e dando un’interpretazione delle prime parole che vi si leggono
Etimologia voce dotta composta da due elementi di origine greca, rispettivamente derivati da biblíon ‘libro’ e mántis ‘indovino, profeta’.
- «Non so che fare, ricorrerò alla bibliomanzia.»
(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)
Sono incerto: un’amica mi ha invitato all’ultimo momento a fare un viaggio in barca, ma forse non è un momento propizio. Perciò prendo una vecchia copia dell’Odissea che mi guarda dallo scaffale, l’apro a caso e leggo. «Mentre così doleasi, un’onda grande / venne d’alto con furia, e urtò la barca / e rigirolla». Gasp, credo declinerò l’invito.
Devo fare un passo indietro come mi viene chiesto, o restare sulla mia posizione? Vediamo, ho qui una Commedia, apro alla pagina che viene. «“Perché l’animo tuo tanto s’impiglia” / disse ‘l maestro “che l’andare allenti? / che ti fa ciò che quivi si pispiglia / Vien dietro a me, e lascia dir le genti”». Va bene, resisto.
Non so come allentare un conflitto che m’inviperisce e rode: non so proprio che pensare, ho bisogno di una parola vera. Mi casca in mano La peddi nova di Ignazio Buttitta, apro e «Parro cu tia, / to è la curpa» (“Parlo con te, tua è la colpa”). Perbacco.
La bibliomanzia è una pratica di divinazione attraverso i libri, e la procedura è semplice. Si pone la questione a questo oracolo portatile, si apre una pagina a caso e si sta alla sorte — sorte addomesticata dall’interpretazione della frase, che può approdare a un significato o a un altro.
Magari la risposta è di chiara pertinenza: voglio sapere se devo partecipare alla festa o no, mi scivolano in mano le quartine di Omar Khayyam e «Porta quel rosso rubino dentro il cristallo puro». Bene, esco.
Magari la risposta è più che sibillina, e richiede una lettura non solo metaforica, ma anagogica, mistica. Colgo l’offerta di lavoro e parto per mai più tornare o resto? Fra le costole dei libri mi occhieggia l’Edda di Snorri e «Sotto il frassino Yggdrasill / ci sono più serpi / di quante pensi uno sciocco». Mmm. Forse vuol dire che devo partire. O no?
La bibliomanzia, in forme diverse, esiste da millenni, e si è appuntata in particolare su alcune opere — l’epica classica, la Bibbia — che peraltro avevano anche il pregio di essere relativamente diffuse anche quando di libri ce n’erano in giro meno di oggi. Furono famose le cosiddette sortes biblicae e sortes vergilianae (dall’Eneide).
Ma va detto che ci sono proprio libri più adatti di altri, per la bibliomanzia: i libri di poesia, o divisi in versi e versetti, o anche in piccoli capitoli, insomma i libri sentenziosi rispondono a tono più facilmente di altri che invece sono tutti compresi in una narrazione di ampio respiro.
Mi dirà di sì? Il nome della rosa mi risponde «Una volta lo udii consigliare uno scoliaste su come interpretare la ricapitulatio nei testi di Ticonio giusta la mente di santo Agostino, acché si evitasse l’eresia donatista.» Uhm.
Noi, che non abbiamo astragali e sorti sempre a portata di mano, che obiettivamente arranchiamo nella lettura delle viscere e negli auspici celesti, che non ci cimentiamo in prima persona in oroscopi e cabale, senza contare che difficilmente vaticiniamo facendoci invasare dalla divinità, ecco, noi abbiamo ancora facile accesso alla risorsa bibliomantica grazie al semplice facile accesso ai libri.
È anche una divinazione che permette di aggiustare in anticipo il risultato in modi vari e piani, come da sempre si deve saper fare quando ci si appresta alla divinazione. Voglio che mi sia predetto il piatto più propizio per la serata Interrogherò Cento cose che non sapevi di poter friggere, non Erbe amare di lunga vita. Voglio un responso battagliero? Posso aprire l’Iliade. Ne voglio uno semplicemente radioso? La Pimpa. Anche se forse per onestà oracolare si dovrebbero scegliere titoli neutri, autorevoli e significativi, addirittura magari uno solo, al modo in cui si usava la Bibbia.
Be’, ignorando purtroppo le effettive potenzialità della bibliomanzia nel raccogliere il brusio del divino che racconta il futuro, possiamo per certo dire questo: resta una pratica che rispetto alle manzie colleghe sa essere particolarmente divertente!
Panacea
pa-na-cè-a
Significato Rimedio che guarisce tutti i mali; soluzione che risolve tutti i problemi
Etimologia voce dotta recuperata dal latino panacea, dal greco panákeia, propriamente ‘che cura tutti i mali’, composto di pân ‘tutto’ e akêisthai ‘curare, guarire’.
Il rimedio che cura tutti i mali. Significato formidabile — con solo una trascurabile pecca nel fatto che tale rimedio non esiste. Ma prima di approdare a questo significato così fulgido, elegante e attraente, la panacea ha indicato una valanga di roba.
Non siamo davanti a un farmaco mitico dell’antichità greca, anche se di profilo assomiglia a nettare e ambrosia, e può confondervisi. Il greco panákeia ha indicato un insieme di piante dalle proprietà medicamentose — il verbo akêisthai significa ‘curare’, mentre pân significa ‘tutto’, e in italiano a ‘panacea’ si alterna la variante ‘panace’. Peraltro, per gli standard antichi, è anche un insieme piuttosto coerente, perché ha indicato in maniera speciale piante della famiglia delle Apiacee o Ombrellifere — come quelle del genere Heracleum, Levisticum e Thapsia. Con una simpatica coerenza, un genere della famiglia delle Araliacee (tassonomicamente prossimo) è stato battezzato Panax, ed è il ginseng, ben noto per le sue proprietà.
Quindi la panacea nasce da un sostrato terragno e molto concreto di erboristeria dei tempi andati. A cui però si aggiunge, dal Rinascimento, una sequela di significati chimici, o meglio alchemici. Sostanze, composti e miscele (soprattutto sulfuree) si avvicendano con questo nome in un carosello di farmaci dalle grandi capacità curative e anche in grado di allungare la vita. È qui che la panacea prende la sostanza di una panacea universale. Anche qui, però, senza trascendenze: la ‘panacea universale’ era il chermes minerale (non la cocciniglia), un solfuro d’antimonio, che oltre ad essere essenziale per la Grande Opera, la fabbricazione dell’elisir o pietra filosofale, era e pare sia ancora apprezzato come espettorante, diaforetico ed emetico (cioè, in parole più piane, fa scatarrare, sudare e vomitare).
La lingua è corsa avanti: le distinzioni fra le piante officinali nel discorso comune si fermano al discrimine fra basilico e rosmarino, e i riferimenti circostanziati ai farmaci alchemici che promettono guarigioni universali hanno perso smalto. Già nel Seicento medici e scienziati italiani — di quelli che avrebbero gettato le basi per la medicina moderna — iniziano a usare il termine ‘panacea’ in maniera più indefinita, intendendo promettenti medicine da ciarlatani. Anche se la chimera della panacea continuerà ad essere inseguita.
Oggi se ne parla soprattutto in iperboli, quando esageriamo le proprietà terapeutiche di qualcosa fino alla taumaturgia (anche con ironia), o in senso figurato. Posso parlare di come quest’infuso di erbe amare come la morte sia una vera panacea, o di come per lo zio l’unica vera panacea stia in contenitori di vetro col tappo di sughero; ma posso anche parlare di come il turismo sia visto come la panacea per i problemi della comunità montana, o di come l’onestà sia una panacea per il dibattito pubblico.
Ecco, abbiamo assistito all’astrazione della panacea. Da varia erba comune usata in medicina, che per la sua versatilità si diceva curasse tutti i mali, diventa farmaco esoterico, e quindi farmaco postremo, che risolve in maniera finale l’impiccio di qualunque male. Una sofisticazione intensa, che ha finito per offrirci la quintessenza di un concetto.