A ottocento anni dalle stimmate, san Francesco continua a influenzare la cultura e l’arte
Otto secoli fa, sul monte della Verna, Francesco di Assisi riceveva le stimmate: secondo le parole di Bonaventura da Bagnoregio, “nelle sue mani e nei suoi piedi, incominciarono ad apparire segni di chiodi”. Un episodio che ha ispirato grandi artisti, come Giotto, o (forse) Coppo di Marcovaldo nella Pala Bardi a Firenze, il Maestro di san Francesco nella basilica inferiore di Assisi, o Bonaventura Berlinghieri nella chiesa di san Francesco a Pescia.
L’intera vita del Poverello ha affascinato i grandi: oltre a Giotto, van Eyck, Filippo Lippi, Raffaello, Pinturicchio, Caravaggio, tanto da farci chiedere come mai un uomo che aveva deciso di farla finita con la società e la sua cultura sia divenuto poi protagonista non solo dell’arte, ma della letteratura e della musica.
Lo stesso Franz Liszt, quando a Villa d’Este di Tivoli compose la prima delle due Leggende, dedicata a san Francesco che predica agli uccelli (l’altra era su San Francesco di Paola), chiese perdono per aver “impoverito” la ricchezza di un testo e di un’esistenza che non hanno eguali.
Per non parlare di musical come “Forza venite gente” che hanno affascinato l’immaginario collettivo di giovani che avevano abbandonato la fede, o di un album di Angelo Branduardi, oltre che a molte altre canzoni “leggere”, quanto si vuole, ma che non si sono sottratte al fascino senza tempo del Poverello.
Il fatto è che Francesco ha attirato a sè non solo credenti, ma anche scettici o intellettuali orientati in senso materialista, come è accaduto ad uno scrittore italiano del Novecento, Paolo Volponi, attento alla questione operaia, che vide nel Cantico di Frate Sole il mirabile apparire di un pensiero che rivalutava quella che lo scrittore chiamava la materia, vale a dire il creato, le piante, gli animali. Ed un altro scrittore e critico, stavolta cattolico, Carlo Bo, sosteneva che quel Cantico e la vita tutta del santo erano un vero e proprio attacco all’economia d’occidente.
Ma una delle radici di tutti i richiami successivi a Francesco è certamente il Dante dell’undicesimo canto del Paradiso, uno degli episodi dell’intera Commedia in cui la struttura retorica e metrica fa fatica a contenere la commozione di fronte ad una scelta talmente affascinante da spingere Bernardo, Egidio e Silvestro ad abbandonare tutto per seguire scalzi quello che molti ritenevano un folle.
Si parlava prima di un fascino che ha raggiunto non solo i cattolici: si pensi a Hermann Hesse e ai suoi due viaggi in Italia, quando, pur avendo alle spalle una famiglia missionaria protestante, e sulla via della scoperta dell’oriente e del Buddha, rimase, al contrario di Goethe, talmente colpito dalle testimonianze scoperte ad Assisi da scrivere un libro intero sul santo, chiamandolo commosso “saluto di Dio alla terra”.
Chesterton, nel suo libro dedicato a Francesco, sosteneva come il santo avesse sconfitto il dualismo cataro, convinto che la materia fosse il male e lo spirito il bene. Il santo d’Assisi dimostrò come l’amore fosse il punto di unione tra l’anima e una natura di splendente bellezza, donatoci da Dio. Una provocazione non solo nei confronti dei Catari, ma di tutti noi.
Non è un caso che l’esempio di Francesco abbia affascinato Carducci, massone non tenero con la Chiesa: in “Santa Maria degli angeli” emerge una commossa evocazione da parte di un uomo che abbandona per un attimo la sua ostilità alla religione per cercare una traccia di Francesco nella campagna umbra.
Senza tralasciare le varie trascrizioni filmiche da parte di Zeffirelli, di Liliana Cavani, e, in un rovesciamento al femminile della conversione francescana, l’ Özpetek di “Cuore sacro”, ovviamente non molto apprezzato da parte di una certa critica che non tollera “invasioni” che sappiano lontanamente di Altro.
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