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Sogno o son desto? Una finestra a Marechiaro e il mistero di Carolina di Vittorio Del Tufo (Il Mattino) 

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Sogno o son desto? Una finestra a Marechiaro e il mistero di Carolina di Vittorio Del Tufo ( Il Mattino)

Domenica 15 Settembre 2024

«Chi dice ca li stelle so’ lucente
Nun sape st’uocchie ca tu tiene nfronte».

* * *

Questa è la storia di una canzone dal fascino senza tempo, ma anche di un sogno a occhi aperti e di una ragazza dal sorriso triste, incerto e malinconico, che senza saperlo e senza volerlo ha trasformato un piccolo borgo di Posillipo, pressoché sconosciuto, in una meta turistica di fama mondiale.

Chi dice che le stelle so’ lucenti probabilmente non conosce la vera storia di Carolina Anastasio, la musa ispiratrice di Salvatore Di Giacomo, autore di Marechiaro, la celebre canzone (del 1885) che parla di una fenesta e di una passione che vi tuzzulea, di pesci che fanno l’amore, di onde del mare che si rivoltano e per la priézza cambiano colore.

Narra la leggenda, alimentata dallo stesso autore, che la canzone nacque per caso, anzi per incantesimo. Che prima di scriverla il poeta non era mai stato nei luoghi descritti nel testo. E non sapeva niente né della fenestella né di Carolì, la musa ispiratrice alla quale rivolse, in versi, la struggente implorazione: scetate, ca ll’aria è dolce.

L’ispirazione, narra ancora la leggenda, non sarebbe arrivata davanti alla mitica finestra ornata di un vaso con garofano (e che ancora oggi riporta una lapide celebrativa su cui sono incisi lo spartito e il nome dell’autore della canzone) ma al tavolino di un bar: il Gambrinus, nella cui calda atmosfera videro alla luce capolavori come A vucchella (Gabriele D’Annunzio-Francesco Paolo Tosti) e Dicitenciello vuje (Rodolfo Falvo-Enzo Fusco).

Insomma Di Giacomo ha sempre sostenuto di essersi inventato tutto: a fenestella, il garofano e pure Carolina. Alimentando la tesi, assai poetica, del «sogno a occhi aperti» l’autore sostenne di essersi recato a Marechiaro solo dopo aver scritto la canzone. E di aver trovato lì un oste di nome Carmine Catogno che aveva alle sue dipendenze una servetta chiamata Carolina. «Tempo fa – scrisse Di Giacomo – in un giorno d’aprile una piccola navicella a vela mi portò per la prima volta laggiù, su que’ lidi che, senza conoscerli, avevo celebrato. L’immane conca luminosa e tranquilla, dal cui vasto arco si spiccava al varco la navicella, emanava un acuto odor d’alghe. Poi scomparvero a mano a mano le alte colline della riva, e anche il segno del vasto anfiteatro della città scomparve. Per poco ancora giunsero fino a me rumori confusi, indistinti: poi si fece attorno un silenzio, e io, steso a poppa sotto la tenda che palpitava alla brezza, potetti seguire e rincorrere certi miei sogni e certi miei ricordi. V’è mai accaduto di trovare esistenti le immagini a cui dette forma e vita la vostra fantasia solamente? Mi sarei tra poco trovato al cospetto evidente delle amorose cose e delle persone che i versi della mia canzone avevano già quasi reso famose. La piccola finestra è il vaso dei garofani e Carolina, tutto questo, dunque, era per apparirmi e svelarmisi a momenti, vivo e vero?».
* * *
Vite immaginate, vite sognate. Un deja vu, insomma. Anzi il più straordinario caso di deja vu nella storia della canzone napoletana. Ovviamente erano tutte balle. All’autore di Era de maggio, E spingole frangese e Palomba e notte piaceva scherzare: una volta fabbricò prove posticce per attribuire il misterioso testo di Michelemmà niente di meno che al pittore Salvator Rosa.

Come andarono realmente le cose lo avrebbero svelato in seguito grandi studiosi della canzone napoletana come Pietro Gargano («Il posteggiatore Fedele Sciarra sosterrà che il poeta era di casa nella trattoria sotto la finestra. Fu lo stesso Di Giacomo a contribuire alla crescita del mito») e Vittorio Paliotti. Quest’ultimo raccolse le confidenze di Nannina Cotugno, la direttrice della trattoria A finestrella. «Io sono l’erede di Carolina, quella della canzone. Ricordate i versi? Scetate, Carulì, ca ll’aria è doce Ebbene, Carolina era la prima moglie di mio nonno. Il poeta la conobbe quando lei era ancora zitella, e dopo aver tentato invano di conquistarla, la mise nella canzone Una vera e propria richiesta ufficiale di nozze. Tutto inutile, Carolina era già innamorata. Mio nonno, non per dire, era il giovanotto più prestante di Posillipo mentre il poeta, nel fisico, lasciava molto a desiderare» (vedi Vittorio Paliotti, «Il diavolo a Posillipo», Stamperia del Valentino).

Al mistero di Carolina ha dedicato tempo fa un bel libro anche Peppe Manetti, dal titolo «Carulina e Marechiaro». Stessa ricostruzione: Carolina era la prima moglie di Carmine Cotugno (nonno di Manetti) e Di Giacomo, assiduo frequentatore della trattoria, scrisse lì i versi della canzone dedicandoli proprio alla donna, Carolina Anastasio, la quale morì, purtroppo, giovane e senza essere riuscita a dare alla luce dei figli. Racconta Manetti che dopo aver composto i versi dedicati a Carolina, Di Giacomo salutò timorosamente Carmine dicendogli:
«Carminiè t’aggio fatto nu’ rialo che sarà ricordato per sempre».

L’amore tra Carolina e Carmine Cotugno era sbocciato anni prima. Era il 1880 quando Vincenzo Anastasio, il padre di Carolina, ebbe la felice intuizione di aprire la prima osteria a Marechiaro. «Il posto prescelto – racconta Peppe Manetti – fu quello dove si andava a cuocere il pane, un vecchio forno, situato ad una rampa di scale da casa sua… Inoltre poteva avvalersi dell’aiuto della moglie Teresa e della figlia. Carolina aveva poco più di sedici anni». Tempo pochi mesi e «L’osteria Marechiaro» era pronta per aprire. Mancava però l’elemento fondamentale: il vino. «Per avere una buona qualità di vino, Vincenzo si rivolse ad Antonio Cotugno, il più importante produttore della zona. Antonio, il titolare dell’azienda, incaricò il figlio Carmine, un giovane di circa ventiquattro anni, di fare le consegne all’osteria di Vincenzo». Carminiello era un pezzo d’uomo e fece breccia nel cuore di Carolina. L’amore sbocciò rapidamente e la coppia si sposò il 25 luglio 1880. Sul sagrato della chiesa di Marechiaro c’erano tutti i pescatori ad attendere i due giovani. Carmine cominciò a lavorare in quella che ormai era diventata la trattoria di famiglia. Il resto è storia. Anzi leggenda.
* * *
La fama di Marechiaro deve molto a Salvatore Di Giacomo e al suo capolavoro, magistralmente musicato da quel Francesco Paolo Tosti, abruzzese di Ortona a Mare, che sulla tomba si meritò l’epitaffio di «signore della melodia». A Marechiaro nce stà na fenesta ma ci sono soprattutto i fantasmi che continuano a darsi raduno tra i ruderi delle ville costruite nel periodo romano. Furono i romani a dare al luogo il nome mare planum, per la quiete delle sue acque. D’altra parte, Pausilypon non è forse la collina che «placa il dolore», dandogli tregua, proprio per la sua millenaria quiete? Sulle rovine degli edifici romani sorse un borgo di pescatori dominato dalla chiesetta di Santa Maria del Faro, e il mare planum dei romani divenne, per corruzione, dapprima mare chiaro e poi Marechiaro. Ed è lì che la passione nostra, a distanza di secoli, continua a tuzzuliare.

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 Vittorio Del Tufo, giornalista, vive e lavora a Napoli, dove è nato nel 1964. Laureato in Giurisprudenza, è giornalista professionista dal 1990. Già vincitore del “Premio Cronista” della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, si è aggiudicato, nel 2009, il premio “Cosimo Fanzago”, assegnato ogni anno a chi si adopera in favore della città. Capocronista de “Il Mattino” dal 2008 al 2011, attualmente lavora nell’ufficio del Redattore Capo Centrale del maggior quotidiano del Meridione.

(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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