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La “minaccia” dei missili a lungo raggio. Buonomo, “un ostacolo a qualsiasi spiraglio di pace”

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“Sembra che il conflitto oggi sia tornato ad essere l’unico strumento per dare soluzione alle questioni o anche alle controversie che si pongono sul piano internazionale e questo non sembra preoccupare né in termini politici, ma soprattutto in termini pedagogici. Sta passando, cioè, l’idea che la forza, e la forza armata in particolare, può tornare ad essere uno strumento lecito da utilizzare nei rapporti tra Stati”. E’ una visione amara quella di Vincenzo Buonomo, ordinario di diritto internazionale della Pontificia Università Lateranense che in questa intervista al Sir analizza le conseguenze che una decisione come quella di inviare in Ucraina missili a lungo raggio può avere nella scenario della guerra. Era stato il presidente americano Joe Biden a dire nei giorni scorsi: “Stiamo lavorando” per autorizzare l’Ucraina ad usare armi Usa contro la Russia. Immediata (e scontata) la risposta russa. Il presidente russo Vladimir Putin ha subito chiarito che l’uso da parte dell’Ucraina di missili a lungo raggio occidentali per colpire la Russia significherà che “i Paesi Nato sono in guerra con la Russia”, e Mosca prenderà le “decisioni appropriate”.

Prof. Buonomo, se questi annunci (per ora) di escalation diventassero realtà, cosa si rischierebbe?
Un dato costante in questo conflitto è la continua escalation sulla disponibilità e sull’uso degli armamenti che le due parti impiegano o, come forma di deterrenza, minacciano di utilizzare. Sempre più però questo innalzamento del livello allontana le probabilità e forse anche la volontà d’interrompere i combattimenti. Sembra quasi che il conflitto si stia trasformando in una possibilità di testare nuovi armamenti sempre più sofisticati, come per esempio le cosiddette armi autonome che non hanno un diretto controllo, anzi eludono il fattore umano. Credo che anche nella logica o strategia militare, l’impiego di armamenti o protocolli non possa prescindere dal rispetto di quelle norme minime che regolano la guerra, ma che proprio nel conflitto determinato dall’aggressione russa in Ucraina non sembrano essere prese in considerazione. La “pubblica coscienza” che la diplomazia russa invocava sul finire del XIX secolo per regolare i conflitti, è la grande assente.

Con l’attacco ucraino alla città russa di Kursk, l’Ucraina sta tragicamente passando da paese aggredito a paese aggressore. Coma cambia la situazione questo nuovo scenario? Quanto si allontana la pace?
Lo scenario militare determinato dall’entrata sul territorio russo delle truppe ucraine credo rientri nella amara logica della guerra, delle azioni militari che si verificano o si alternano nei conflitti. Non si tratta di aggressione, ma di reazione rispetto all’aggressione subita e che sempre più sposta la localizzazione del conflitto. Quanto poi il controllo delle nuove aree rimanga ancora nelle mani delle forze ucraine non è facile dirlo. Si tratta di azioni che si aggiungono a quelle che la stessa Ucraina sta mettendo in atto nell’artico russo vicino alla penisola di Kola dove sono presenti insediamenti nucleari russi o nella Crimea. Ma questo è solo lo scenario militare che oscura la questione o gli effetti di cui è vittima la popolazione civile, che sia russa o ucraina. È chiaro che l’ampliarsi del fronte di guerra, unito ad un più ampio uso di armamenti, costituisce non solo un ostacolo al processo di pace che andrebbe avviato, ma nell’immediato impedisce qualunque spiraglio per un cessate il fuoco e ancor più macchia questo conflitto di crimini di guerra che vanno dal considerare la popolazione civile come obiettivo militare, alla distruzione di infrastrutture protette e più in generale alla quotidiana violazione delle regole del diritto internazionale umanitario. Regole quest’ultime che non sono evidentemente la soluzione, ma rimangono un presupposto perché si possa parlare non solo gli cessate il fuoco e di pace, ma di durata del cessate il fuoco e di costruzione di una vera pace.

Da una parte si assiste ad una rincorsa agli armamenti dall’altra sia il presidente Zelensky sia il cancelliere tedesco Scholz affermano di avere “piani di pace”. Che senso hanno queste iniziative? Si può credere alle buone “intenzioni”?
La pace o anche ancor prima il far tacere le armi rimane sempre frutto di una predisposizione e di una volontà delle persone, dei responsabili politici e di tutti coloro che in qualche modalità sostengono un conflitto, o ne sono uno dei protagonisti, anche indirettamente.

Per questo pure il minimo segnale in cui si intravede qualche possibilità non va tralasciato, anzi va incoraggiato e se possibile instradato verso la realizzazione di obiettivi più ampi.

Il negoziato non si costruisce attraverso proclami o posizioni di propaganda o con metodi che tendono ad influenzare le opinioni negando la realtà dei fatti. I negoziati hanno bisogno di presupposti concreti da cui partire e di altrettanti obiettivi a cui giungere, mantenendo la necessaria elasticità perché durante il loro svolgersi possono essere recepiti ulteriori elementi che magari solo un attimo prima sembrava impossibile poter includere nel processo negoziale. Ancora di più, il negoziato tende a rendere possibili le buone intenzioni o almeno l’intento di sedersi intorno ad un tavolo, tra nemici secondo il linguaggio militare, per ricercare gli spazi d’intesa o le soluzioni. Nessuna preclusione dunque, ma certamente un sano realismo e la capacità di operare lontano dalla scena mediatica diventano il metodo per valutare iniziative ed eventuali risultati.

Stiamo entrando nel terzo inverno in guerra. La gente in Ucraina è stanca, provata, ferita. Dov’è la diplomazia Perché le leadership mondiali hanno perso la capacità di portare attorno ad un tavolo negoziale i paesi in guerra Dove si sta sbagliando e quale invece la strada da intraprendere?
Di fronte alle sofferenze, ai lutti, come pure alle attese della gente un dato purtroppo è certo: il conflitto in Ucraina è stato volutamente portato fuori dal contesto multilaterale, quello dell’Onu ad esempio, per essere gestito attraverso iniziative in cui il fattore “potenza” è il punto di riferimento. Qualcuno ha detto che si è tornati ad un sistema vecchio di operare nei rapporti internazionali in cui a prevalere è un uso della forza che cancella ogni traguardo raggiunto nella Comunità internazionale per umanizzare fino ad arginare ed eliminare il conflitto come possibilità. Negli ultimi decenni siamo stati abituati non all’assenza di conflitti – che purtroppo hanno imperversato e imperversano – ma ad una certa capacità da parte di strumenti normativi e di Istituzioni operanti sul piano mondiale in grado almeno di arrestare i combattimenti in attesa di soluzioni. Oggi siamo lontani da queste immagini, sostituite con enorme facilità e con altrettanta generale indifferenza, da guerre che coinvolgono un gran numero di Stati – e non soltanto quelli belligeranti – che si prefiggono di modificare confini, territori fino ad operare con la forza per compromettere l’esistenza stessa di gruppi, comunità e popoli.

Il ruolo delle Chiese. Quale potrebbe essere? E come valutare, a tale proposito, la missione fin qui portata avanti dal card. Zuppi?
Non credo si tratti di individuare quale potrebbe essere il ruolo delle Chiese. L’aggressione russa in Ucraina ha anche evidenziato come esponenti e membri delle chiese possono trasformare le visioni religiose, il credere e l’essenza stessa di una istituzione ecclesiale in strumento di pacificazione o di conflitto. Per cui abbiamo assistito a degli schieramenti quasi un gioco di ruolo posto a servizio diretto o indiretto della guerra. In questo le iniziative personali e strutturali vanno classificate attraverso la loro funzione di strumento per la pacificazione, per l’umanizzazione del conflitto, per gettare le basi di una futura convivenza nel rispetto del diritto e della giustizia. In questo quadro concettuale, che è volto anzitutto al rispetto della persona, al di là di ogni appartenenza o schieramento, si inserisce anche la missione svolta da esponenti delle chiese, come il card. Zuppi, a favore non di un’astratta azione umanitaria, ma dell’interesse concreto dei prigionieri di guerra, dei minori e orfani sottratti, degli esclusi e delle vittime dimenticate del conflitto.

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