La Cisgiordania a ferro e fuoco
Nelle stesse ore in cui il Tg1 ci propinava un’imbarazzante (per tempi e modi, oltre che per contenuti) intervista all’ex ministro della cultura Sangiuliano, in Palestina una ragazza di 26 anni veniva colpita a morte da un soldato israeliano mentre stava partecipando ad una manifestazione non violenta per il ristabilimento della giustizia e della pace. La notizia sarebbe passata del tutto inosservata se Aysenur Ezgi Eygi, questo il nome della ragazza uccisa, non fosse poi risultata essere cittadina statunitense. I fatti non sono accaduti nell’inferno della Striscia di Gaza, dove da quasi un anno decine di migliaia di innocenti subiscono distruzione, violenze, fame, epidemie e morte a causa del conflitto scatenato dagli attacchi terroristici di Hamas e dalla fame di vendetta di Israele, ma in Cisgiordania, dove la guerra in corso si è trasformata di fatto in un’occasione propizia di occupazione violenta e violazione di ogni diritto umano da parte dei coloni israeliani sulla popolazione palestinese di quel territorio, costituita in prevalenza da agricoltori e pastori. Il tutto con la benedizione di Netanyahu e l’appoggio militare dei soldati israeliani, armati fino ai denti, triste ironia della sorte, proprio dagli Stati Uniti d’America. La messa a ferro e fuoco della Cisgiordania in queste ultime settimane, in un silenzio mediatico generalizzato, difficilmente può giustificarsi come lotta al terrorismo di Hamas. Essa manifesta, piuttosto, in modo ora inequivocabile, l’intento del governo israeliano di annettere definitivamente questi territori, cancellando completamente la presenza palestinese e rendendo così ancor più fondate le accuse di “apartheid” e “genocidio” mosse in questi mesi da vari organismi internazionali proprio allo Stato di Israele, nato (male) sulle macerie dell’antisemitismo nazifascista e degli orrori dell’olocausto. Se nella Striscia di Gaza i morti sfiorano oramai le 40mila unità, in Cisgiordania dallo scorso 7 ottobre, secondo dati ONU, hanno perso la vita almeno 700 palestinesi che avevano l’unica colpa di difendere le proprie abitazioni e le proprie attività lavorative. La situazione si è pesantemente aggravata proprio nelle ultime settimane, con una “operazione speciale” iniziata lo scorso 28 agosto, che ha portato all’assedio di Jenin, a violenti scontri a Nablus e che sta ancora seminando terrore e distruzione in molti governatorati della regione (tra cui anche Betlemme e Gerico). Secondo quanto denunciato dalle amministrazioni locali, le Forze di Difesa Israeliane avrebbero preso di mira case, ospedali, strade, automobili, e ambulanze; attaccato civili di tutte le età, tra cui anche giornalisti, e medici; ordinato un coprifuoco e costretto dozzine di persone ad abbandonare le proprie abitazioni; danneggiato deliberatamente e senza reali scopi militari infrastrutture di vitale importanza per le comunità locali. In tale preoccupante allargamento del conflitto, che da lotta al terrorismo si va palesando dunque come vera e propria operazione di pulizia etnica, costituiscono un segno di speranza le sempre più frequenti e partecipate manifestazioni di piazza contro il governo Netanyahu, ma troppo timida pare ancora l’opinione pubblica internazionale dove solo la voce del Papa e di altri leader religiosi invoca chiaramente una pace immediata.
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