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Venezia81. Angelina Jolie è Maria Callas nel film di Pablo Larraín

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Inizia la gara per il Leone d’oro all’81ª Mostra del Cinema della Biennale di Venezia. Dopo l’apertura con “Beetlejuice Beetlejuice” di Tim Burton, fuori Concorso, giovedì 29 agosto passano i primi due titoli della competizione ufficiale. Il primo è “Maria” firmato dal regista cileno Pablo Larraín, un intenso ritratto della diva Maria Callas, raccontata nell’ultima settimana della sua vita tra fragilità esistenziali e pagine del passato, tra palcoscenico e vita familiare, sentimentale. A interpretarla la Premio Oscar Angelina Jolie, affiancata dagli italiani Pierfrancesco Favino e Alba Rohrwacher. “Maria” completa idealmente la trilogia di donne, di figure emblematiche del XX secolo tratteggiate da Larraín dopo “Jackie” (2016) e “Spencer” (2021). Il secondo film in cartellone è l’argentino “El Jockey” di Luis Ortega con Nahuel Pérez Biscayart e Úrsula Corberó (Tokyo della serie “La casa di carta”). Un racconto ironico e irriverente, marcato da una dolenza di fondo. Il percorso di un fantino, assalito da pressioni, in cerca di libertà. Il punto dalla Mostra.

“Maria”
Al Lido è di casa Pablo Larraín. È stato in Concorso con “Post Mortem” (2010), “Jackie” (2016, Miglior sceneggiatura), “Ema” (2019), “Spencer” (2021) ed “El Conde” (2023, Miglior sceneggiatura). Il regista cileno presenta a Venezia81 il suo terzo ritratto femminile dedicato a una donna celebre e iconica del XX secolo, segnata però da una storia tragica, tra solitudine e scontro con il mondo mediatico. Dopo le sofisticate istantanee dedicate a Jackie Kennedy e Diana Spencer, arriva “Maria” sulla diva della lirica Maria Callas. Non un biopic piano e convenzionale – non sarebbe da Larraín! –, ma un ritratto della diva sulla soglia della morte, stanca e sola, che riavvolge il nastro dei ricordi e delle emozioni di un’intera vita, compresi i traumi che ne hanno segnato il percorso. A firmare il copione è la penna di talento britannica Steven Knight (suoi “La promessa dell’assassino”, “Locke” e “Spencer”). Interprete su cui poggia la struttura narrativa è la Premio Oscar Angelina Jolie, che con questo film prova a riprendersi la scena a Hollywood, aprendo la corsa per i prossimi Academy Award. A completare il cast Pierfrancesco Favino e Alba Rohrwacher nei panni dei fidati collaboratori della Callas, Ferruccio e Bruna.

La storia. Settembre 1977, Maria Callas si è ritirata dalle scene. Vive nel suo appartamento di Parigi avvolta dalle cure dei suoi collaboratori Ferruccio e Bruna. Sono giorni di tormento, che la diva cerca di attenuare con l’aiuto dei farmaci. I numerosi successi sul palcoscenico la tengono in vita, la spronano a sognare di tornare ancora una volta a cantare in pubblico. Nel mentre, si concede a una lunga intervista in cui lascia affiorare lampi di carriera, parentesi familiari ad Atene e pagine di amore tormentato con l’armatore Aristotele Onassis…

(Angelina Jolie, credits Pablo Larrain)

“Maria Callas – ha dichiarato il regista – [è] la più grande cantante lirica di tutti i tempi (…). Questa è la storia dei suoi ultimi giorni, una celebrazione raccontata attraverso i ricordi e gli amici, e soprattutto attraverso il suo canto”.

Del film di Larraín colpiscono anzitutto la costruzione narrativa, che gira sulla valida sceneggiatura di Steven Knight: scandagliando umori, fantasmi e fragilità della Callas nell’ultimo valzer prima della morte, fa riaffiorare dal passato memorie e ricordi come suggestioni oniriche. Memorie spesso giocate in uno splendido bianco e nero. La regia di Larraín gira come sempre solida e avvolgente, forte anche di una chiara esperienza in questa tipologia di racconti biografici segnati da originalità, introspezione e raffinatezza.

Angelina Jolie veste gli abiti della Callas con grande attenzione e rispetto, provando a uscire dal perimetro della facile mimesi fisica per spingersi ad abitare stati d’animo lividi e dolenti di una creatura luminosa assediata da troppe ombre e angosce. La Jolie descrive l’affanno interiore della Callas e al contempo lascia librare il suo straordinario talento artistico.

Infine, sotto il profilo stilistico è da lodare la scelta del regista di concedere ampio spazio alla componente musicale, alle varie arie interpretate dalla soprano. E anche se tutto nel film non sempre gira in maniera fluida o convincente, si coglie con chiarezza il desiderio di fondo di rendere omaggio a una grande artista che si è spenta troppo presto, in un bozzolo di solitudine. Consigliabile, problematico-poetico, per dibattiti.

“El Jockey”
Classe 1980, il regista argentino Luis Ortega (“L’angelo del crimine”, la serie Tv “Narcos: Messico”) si presenta in Concorso a Venezia81 con un racconto metaforico ironico e surreale. È “El Jockey”, scritto dallo stesso Ortega insieme a Rodolfo Palacios e Fabián Casas. Protagonisti Nahuel Pérez Biscayart e Úrsula Corberó.

La storia. Buenos Aires, il fantino di successo Remo Manfredini vive un momento di stallo, tra dipendenze, smarrimenti e pressioni legate al ricatto del boss mafioso Sirena. Anche la sua relazione con la collega Abril sembra traballare, nonostante i due aspettino un figlio. In seguito a un incidente e smottamenti della memoria, l’uomo finisce in carcere…

(Credits_Rei_Pictures__El_Despacho__Infinity_Hill__Warner_Music_Entertainment)

“Lo scontro tra il mondo interiore e quello esteriore – ha commentato il regista – è il campo di battaglia su cui si svolge il film. Tanto più intenso il mondo interiore del personaggio, quanto più violento lo scontro con l’esterno. In cerca della salvezza, il fantino cambierà più volte identità, cercando di raggiungere la libertà grazie all’una o all’altra. Ma sono tutte identità tormentate. Per essere liberi dobbiamo uccidere uno per uno tutti i nostri personaggi”.

Ortega disegna un racconto giocato tra realtà e metafora, tra sberleffo e critica sociale, dove in campo troviamo l’esistenza ondivaga e bislacca di un fantino di successo che ha perso l’incanto, la sua capacità di vincere (e di vivere). È assalito da debiti e pressioni, si aggrappa ripetutamente alla bottiglia, procedendo senza meta. Disastrosamente. Il registro prevalente è comico-grottesco, anche se sottotraccia si colgono le infelicità di una società che vive di espedienti. Con soluzioni che sembrano omaggiare la leggerezza narrativa di Aki Kaurismäki, l’opera di Ortega incede stancamente e senza troppa convinzione, messa in sicurezza dall’interpretazione generosa di Nahuel Pérez Biscayart. Film complesso, problematico.

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