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Mons. Redaelli (Caritas): “Non mi dispiacerebbe la nomina di un Commissario per l’edilizia carceraria ordinaria”

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Con il via libera definitivo ottenuto alla Camera dei Deputati ad inizio mese è divenuto legge il cosiddetto “Decreto carceri”. Un’approvazione giunta in un periodo particolarmente difficile per la realtà carceraria italiana che ha dovuto fronteggiare negli ultimi mesi numerose proteste e rivolte in tutto il Paese.
Ne abbiamo parlato con l’arcivescovo Carlo Roberto Maria Redaelli, anche nella sua veste di presidente della Commissione episcopale della Cei per il servizio della carità e della salute e della Caritas nazionale.

Eccellenza, domenica 18 agosto, lei ha celebrato la Messa nella cappella della Casa circondariale di Gorizia: anche questa struttura, nelle scorse settimane, ha vissuto momenti di tensione. Che situazione ha trovato?
Certamente la Casa circondariale di Gorizia non è molto ampia ed ha sempre un numero di detenuti maggiore rispetto la capienza ordinaria prevista.
Nelle scorse settimane ci sono stati momenti di tensione dovuti alla situazione di sovraffollamento accentuati dal calco intenso ma anche dal fatto che – come in analoghe strutture in tutto il Paese – vi sono ospitate persone che hanno problemi di carattere psichiatrico.
Si tratta di soggetti che possono creare problemi nei rapporti con gli altri detenuti e con il personale in servizio. Per loro dovrebbero essere previsti percorsi diversi, ma da quando sono stati chiusi definitivamente gli Ospedali psichiatrici giudiziari (31 marzo 2015, n.d.r.), le Rems (Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria) che ne avrebbero dovuto prendere il posto non sono ancora riuscite a funzionare come previsto e sperato.
Ritornando a Gorizia, sulla base di quello che ho potuto constatare personalmente, la situazione mi sembra più tranquilla e sotto controllo con il tentativo da parte degli stessi detenuti di rendere il clima più sereno.
Indubbiamente l’ampliamente del carcere all’ex scuola “Pitteri” – i cui lavori speriamo davvero possano partire quanto prima! – porterebbe alla creazione di spazi nuovi e più dignitosi a disposizione tanto dei detenuti quanto del personale.

Oltre al momento della Messa, lei ha avuto anche un incontro con i detenuti?
Sono stati proprio loro a chiedermi un momento di confronto per illustrarmi anche le situazioni di disagio che si trovano a vivere ogni giorno (alcuni bagni inaccessibili, l’acqua che in taluni locali non funziona…).
Il Decreto carceri approvato nei giorni scorsi dal Parlamento ha istituito un Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria: non mi dispiacerebbe la nomina anche di un Commissario per l’edilizia carceraria ordinaria, da individuare magari nello stesso direttore o nel responsabile amministrativo della struttura. Molti problemi del carcere sono legati alla quotidianità (la rottura delle docce, il malfunzionamento delle finestre, i problemi delle cucine…) ed una semplificazione della procedura burocratica per queste piccole manutenzioni a costo ridotto potrebbe dimostrarsi molto utile per migliorare la vita di chi è recluso e ridurre le tensioni.

Durante il dialogo che abbiamo avuto, mi ha colpito una domanda che un detenuto mi ha rivolto. Nel carcere di Verona, dove si trovava prima di giungere a Gorizia, il cappellano gli aveva chiesto quale fosse la sua vocazione nel carcere e lui mi ha girato quella domanda. Gli ho risposto ricordando che ogni cristiano ha la vocazione di essere figlio di un Dio che è amore e quindi la sua vocazione è amare in ogni situazione.Per chi vive in carcere, questo può realizzarsi facendo attenzione ai compagni di cella, alle situazioni familiari, a dare una mano impegnandosi a creare un clima che non sia semplicemente “passivo” ma diventi “attivo” creando qualcosa di positivo, favorendo la concordia…

Prima lei accennava al Decreto carceri approvato in questo mese di agosto dal Parlamento. Che valutazione dà di questa legge?
Mi riallaccio a quanto, proprio su questo tema, mi hanno detto alcuni detenuti.
Un aspetto senz’altro importante che la nuova normativa offre è quello della certezza sugli sconti di pena sin dall’inizio della detenzione. Pur tenendo conto dell’importanza della valutazione del magistrato di sorveglianza, la persona reclusa sa che se si comporta in un certo modo può uscire prima dal carcere e questo è senz’altro motivo di speranza: l’incertezza è un problema nella vita per tutti che diventa ancora maggiore per chi è detenuto.

È positiva, inoltre, la previsione dell’assunzione di nuovi direttori. Senza nulla togliere alla buona volontà ed all’impegno di chi l’ha preceduta, constatiamo ogni giorno proprio qui a Gorizia quanto sia importante la presenza di una direttrice impegnata solo nella struttura cittadina e non chiamata a svolgere lo stesso ruolo contemporaneamente in analoghe strutture anche geograficamente lontane.
Se non si possono che valutare in modo favorevole le due telefonate in più concesse ogni mese, certamente ci si aspettava qualcosa in più tanto sul tema della manutenzione ordinaria delle strutture quanto su quella della riduzione della popolazione carceraria e dell’attivazione di percorsi per il reinserimento dei detenuti.Rimane aperta la questione di quanti si trovano in attesa di giudizio: è sempre necessario per loro il carcere o potrebbe essere utile prevedere l’ampliamento di strumenti quali il braccialetto elettronico?

Il Decreto ha modificato indubbiamente alcuni punti della precedente normativa però, più che favorire la speranza e rilanciare la voglia di vivere, ha prodotto delusione, tenuto per di più conto di quelle che erano state le attese alla vigilia.

In questo senso spero che nel 2025, l’Anno del Giubileo, venga ripreso l’appello che papa Francesco ha lanciato nella “Spes non confundit“, la Bolla di indizione dell’Anno Santo. Il Papa chiede provvedimenti che non siano “svuota carceri” (una parola, peraltro, bruttissima!), ma che servano a dare speranza a chi si trova detenuto favorendo una maggiore attenzione educativa. Non va aumentato solo il personale di custodia ma anche quello educativo e di animazione così fondamentale per il successivo reinserimento dei carcerati.
Il Decreto, infine, prevede che per quanto riguarda i detenuti soggetti al regime del 41bis non possa esserci giustizia riparativa: questo non è assolutamente condivisibile!
È vero che ci troviamo dinanzi a situazioni di reati particolari ma non possiamo permettere che esistano realtà in cui “si butta la chiave”: parliamo di persone a cui vanno offerti, pur con tutte le attenzioni di sicurezza necessarie, percorsi conformi al dettato della Carta Costituzionale, offrendo loro la possibilità di rivedere in qualche maniera il loro precedente percorso di vita, riparando a quanto commesso in passato.

La riforma Cartabia ha introdotto nel 2022 nel nostro ordinamento la “Giustizia riparativa”. Sono passati due anni da allora: a che punto siamo nel percorso per giungere a quella che viene anche chiamata “giustizia rigenerativa”?
Dei tentativi sono stati attuati soprattutto per quanto riguarda i minori e negli anni passati se ne è parlato per i pentiti di mafia, per i protagonisti degli anni del terrorismo ed analoghe situazioni.
Il vero problema rimane quello della sua applicazione ai detenuti comuni.
Bisogna riuscire ad avviare percorsi di giustizia riparativa con chi ha pendenze per reati di una certa gravità, ma non gravissimi, anche con la collaborazione di chi è stato vittima di questi reati ed i loro familiari.Si tratta di un tema davvero importante su cui lavorare e su cui far crescere una cultura anche fra gli stessi detenuti e fra quanti in carcere si trovano ad operare.

Dall’inizio di questo 2024, i suicidi fra i detenuti hanno superato la sessantina. Cosa fare per arginare un fenomeno dai contorni sempre più drammatici?
È vero: ci troviamo dinanzi ad una situazione davvero drammatica, tenuto conto che al numero dei suicidi va aggiunto quello dei tentativi di suicidio.
Qui si apre tutto il tema della fragilità psicologica e psichiatrica cui facevo riferimento anche all’inizio di questa intervista.
I suicidi avvengono spesso all’inizio dell’esperienza detentiva che, se è traumatica per chiunque varchi il portone del carcere lo è, se possibile, ancora di più per quegli stranieri che magari comprendono a malapena qualche parola di italiano, sono assistiti da un avvocato d’ufficio ed hanno difficoltà ad esprimersi. Ma ci si uccide spesso anche alla fine della pena, perché il reinserimento spaventa: non è così semplice come magari “fuori” si pensa, tenuto conto che il mondo del carcere anche “protegge” il detenuto.
Un aiuto psicologico diventa fondamentale per prepararlo al “dopo”.
Ecco, allora, ancora una volta l’importanza delle misure alternative con, però, un appunto: non si può pensare di trasformare le attuali Comunità di recupero in “prigioni private”, scaricando sul mondo del non profit e del volontariato una responsabilità che grava in primo luogo sullo Stato.

(precedentemente pubblicato su “Voce isontina“)

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