Esiste una presenza, nell’oceano, che raramente cogli nelle ore di veglia, e che visualizzi meglio nei sogni.
Quando leggerete queste righe sarà agosto, molte e molti di voi saranno presumibilmente in vacanza. Qualcuno sarà rimasto in città per questioni di lavoro o di altra necessità, oppure (un’aristocrazia cui non appartengo più) per il piacere di soggiornare nel luogo di abituale residenza privo della maggior parte dei suoi abitanti. Ricordo agosti eroici, trascorsi a vagabondare per Roma, per Bari. C’era la possibilità – nel deserto, nell’afa, tra i semafori lampeggianti a regolare il nulla – di fare incontri impossibili. Lo spopolamento temporaneo di un centro urbano libera energie, trasforma quelli che rimangono in persone diverse, a volte ci avvicina alla creatura che crediamo di essere nel profondo ma non riusciamo a incontrare. (La incontriamo nei sogni). Qualcosa ci separa dal nostro nucleo irriducibile.
In questi giorni di fine luglio – per voi che leggete sono già passato prossimo (passato prossimo anche per me mentre rileggo con il brivido dell’avvenuta condivisione: la newsletter arriva anche al suo autore) –, in una Roma soffocata dal caldo e dall’umido, attraversata dai pappagalli verdi, mi capita ogni giorno di transitare in automobile dai confini dell’EUR all’Esquilino. È, questo, il viaggio di ritorno. Quello di andata lo compio a un orario infausto per onorare una pratica antica. Per quanto motorizzata (e modernizzata) la visita agli infermi ci riporta a tempi e civiltà lontane.
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PIACERI SCONOSCIUTI
La newsletter di Nicola Lagioia
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L’orario di visita previsto dal Grande Ospedale è dalle due alle tre di pomeriggio. Un’ora scarsa per fare tutto. Attraverso la Cristoforo Colombo. Per quanto grande, la strada è intasata dal traffico.
Sono in un’auto piuttosto acciaccata, con il finestrino bloccato e l’aria condizionata malfunzionante. Smadonno. Il traffico rallenta.
Ci metto una quarantina di minuti per arrivare a destinazione. Assecondando un meccanismo di rovesciamento concettuale, il disagio mi porta a un ricordo sepolto da anni: l’intera Cristoforo Colombo (un tratto decisamente più lungo rispetto a quello che sto affrontando ora) attraversata in nove minuti e cinquantanove secondi.
In uno dei miei agosti trascorsi a Roma, una quindicina di anni fa, una sera conobbi un poliziotto. Lo conobbi a una cena di avvocati. Quattro avvocati, uno scrittore e un poliziotto al ristorante. Sembra il titolo di un film demenziale. Il poliziotto quell’estate sarebbe rimasto a Roma per lavorare, uno degli avvocati preferiva restare in città perché stava ristrutturando casa e voleva controllare gli operai, un secondo avvocato ne approfittava per studiare con calma una causa importante, gli altri avvocati non ricordo. Io non ero partito perché era un periodo in cui facevo tutto all’ultimo momento, mi sentivo sempre in vacanza e sempre al lavoro.
Comunque, finito di cenare andammo a prendere il cocomero da un ambulante che lavorava tutta la notte a un angolo di strada. Eravamo a San Giovanni, dalle parti di via Sannio. Uno degli avvocati viveva lì vicino. “Andiamo a mangiare il cocomero da me”. Fu così, sul terrazzino dell’avvocato, in una calda e ventilata notte estiva di quindici anni fa, che il poliziotto ci raccontò della sua impresa.
In pratica, sostenne, era capace di percorrere l’intera Cristoforo Colombo in meno di dieci minuti. “Ogni tanto”, disse, “me prende il matto nel cuore della notte”. Allora il poliziotto si buttava giù dal letto, scendeva in garage, montava sulla sua Honda 1000, faceva qualche giro di riscaldamento e si avviava verso la Colombo. La prendeva da San Giovanni, non distante da dove stavamo noi con il nostro cocomero nel ghiaccio dopo aver mangiato al ristorante le linguine allo scoglio, bevuto il vino bianco, gustato il caffè, e infine sorbito l’Amaro del Capo poiché diversi avvocati che patrocinano a Roma vengono dalla Calabria, e nell’offrire a tutti l’ammazzacaffè occultano un cupo gesto di affermazione culturale dietro i piaceri dell’ospitalità.
Il poliziotto, disse, sapeva calcolare l’alternanza di giallo verde e rosso sui trentadue semafori disseminati lungo la Colombo. Ora, la Cristoforo Colombo è la più lunga strada italiana presente su un territorio urbano. È anche la strada più larga d’Italia in assoluto. Parte dalle Mura Aureliane e termina a Ostia dopo aver attraversato l’EUR, la riserva naturale di Caselporziano e quella del Litorale Romano, per un totale di 27 Km. Se il Kurtz di Conrad si fosse rifugiato a Roma (la Cristoforo Colombo come il fiume Congo) aspetterebbe il suo Marlow tra le pinete ombrose di Castel Fusano, al termine di questa grandiosa strada.
Ebbene, il poliziotto sosteneva di essere in grado di individuare, in una delle sue notti magiche, il momento esatto in cui sarebbe scattata l’Onda verde sulla Cristoforo Colombo.
L’Onda verde, sosteneva il poliziotto, è un’unità di tempo, vale a dire i minuti durante i quali, ad andare sufficientemente veloci, ci sarebbe la possibilità di attraversare l’intera Cristoforo Colombo con il massimo numero di semafori verdi. Per la precisione, disse, tutti semafori verdi tranne due. (Ma sono davvero 32 i semafori disseminati lungo la Cristoforo Colombo? Non ho mai verificato). “Bisogna andare dritti sparati, tra i 200 e i 220 senza fermarsi mai, senza frenare. L’Onda capita due volte in una notte, ma non capita ogni notte nello stesso momento. Lo si capisce guardando come si alternano le luci dei semafori sulla Porta Ardeatina. Modestamente, su questo, m’è salito il sesto senso”.
Aspettava l’Onda verde descrivendo spirali sull’asfalto con la sua Honda 1000 nei pressi di largo delle Terme di Caracalla. Riscaldava le gomme. Poi, quando “capiva” che l’Onda era scattata, si lanciava a velocità folle sulla Colombo, la percorreva tutta come un pazzo, senza frenare mai.
“Se l’Onda verde scatta alle ventitré e quarantacinque, praticamente prima di mezzanotte sto a Ostia”.
Il problema era il semaforo all’incrocio con la Laurentina, disse, e poi un secondo semaforo, molto più avanti, “il più bastardo dei semafori di Roma”, quello posto all’incrocio con via di Malafede, alle porte di Infernetto, “te se mette davanti col rosso quando già senti l’aria del litorale”.
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Via Cristoforo Colombo, Roma.
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Questi erano gli unici due semafori, a suo dire, che risultavano immancabilmente rossi mentre c’era l’Onda verde. “Anche ad andare a 300 Km all’ora, prenderli tutti non sarebbe possibile. Ma pure… vai alla velocità della luce? Questi duu fiji de ’na mignotta li trovi sempre rossi”.
A percorrere la Colombo a 200 Km/h alle due del mattino, senza frenare mai, c’era naturalmente il rischio di provocare un incidente terrificante. Uccidersi o ammazzare qualcuno. Per quale motivo il poliziotto si assumeva un rischio simile? Stavo per chiederglielo, volevo sapere se aveva paura, se aveva visto la morte in faccia all’incrocio con la Laurentina o con via di Malafede, mi interessava anche sapere (ma questa, lo capisco, era una curiosità tutta mia) se aveva visto la morte in faccia (e che tipo di faccia avesse in quel caso la morte) allo svincolo con viale dell’Industria, dove c’è l’imbocco del Luneur, il famoso luna park dove la notte ho sempre temuto possano succedere cose abominevoli.
Stavo per fargli queste domande, cercavo la formulazione adatta, un giro di frase che non mi facesse apparire ai suoi occhi troppo stupido, quando successe una cosa molto strana.
Uno dei quattro avvocati, vale a dire, tagliò il cocomero in due, poi lo tagliò in quattro. Subito dopo un secondo avvocato (quello che stava ristrutturando casa) cominciò a stendere la cocaina sul bordo di una delle fette così ottenute. In pratica, la stese sulla curvatura esterna del cocomero, la parte ancora rigida che appartiene alla buccia pur essendo vicinissima alla polpa. Si chiama “albedo”, quella parte.
La coca sull’albedo… mi venne da rivisitare D’Annunzio.
(La coca sulla buccia del melone era una cosa che non avevo mai visto pur avendo frequentato a lungo Poggiofranco, un quartiere di Bari decoroso e ben fatto, una di quelle aree residenziali moderne, abitate per lo più da assicuratori, professori di liceo e medici alle prime armi, una degnissima rappresentanza cittadina la cui concentrazione combinata ha generato però negli anni a Bari ogni tipo di stranezza).
Secondo uno di questi avvocati, stendendola sul bordo del melone, l’effetto della cocaina ne veniva esaltato, e la “goccia” (il velo di gelo che sembra imprimersi in gola a uno o due minuti dall’assunzione) aveva un gradevole sapore fruttato. Tre dei quattro avvocati approfittarono della situazione. Chiesero al poliziotto se voleva associarsi. Il poliziotto sorrise: “no grazie, pippo solo mentre sono in servizio”. Qualcuno rise. Ero certo che non fosse una battuta.
Questa convinzione, non so perché, mi diede il coraggio di fargli le domande che mi frullavano in testa da qualche minuto. Gli chiesi quindi, piuttosto banalmente, perché corresse come un pazzo sulla Cristoforo Colombo.
“Senti, me lo sento che non muoio”, rispose lui. Poi disse: “quando la notte chiama, questa cosa devo farla per forza”. Poi ancora: “la volta che avrò paura di morire significa che avrò sbagliato qualcosa, me ne accorgerò quando sarà tardi, una frazione dopo sarò morto”. “E se morendo ammazzi qualcun altro?”, chiesi stupefatto. “Se muoio non ammazzo nessuno a parte me, su questo possiamo scommettere”.
(Mi chiesi da chi mai avrei potuto incassare la somma, se avessimo scommesso e avessi vinto).
Per il resto, ci tenne a dire, lui era un poliziotto irreprensibile. Rispettoso con i superiori, premuroso verso i sottoposti, coraggioso, generoso, più di una volta aveva affrontato missioni pericolose in maniera encomiabile. Il fatto che corresse come un pazzo sulla Colombo, che ogni tanto pippasse sul lavoro (chissà cos’altro combinava, pensai) non era secondo lui in contraddizione con l’eccellenza professionale di cui si considerava l’esempio incarnato.
Le corse sulla Cristoforo Colombo, disse, lo aiutavano a tenere tutto insieme. “Il mondo è un posto assurdo”, fece ancora, “per certi versi è un posto terribile. È un mondo tristissimo, brutale, infame, soprattutto è un mondo cattivo, molto cattivo, nessuno lo sa meglio di uno che fa il mio mestiere. Per fare del bene in questa merda devi trovare un equilibrio tuo”. Di qui, le corse notturne sulla Colombo.
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Grattacielo delle Poste, Roma.
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Mentre il poliziotto finiva di parlare mi ricordai di quel prete antimafia che si fece una storia con la mia compagna di banco nell’anno della maturità al liceo scientifico. Quando avevo chiesto al prete, con un’aria di cui oggi mi vergogno, cosa ne fosse della sua coerenza, lui rispose in modo serio: “se la gerarchia ecclesiastica, la Chiesa, chiamala come vuoi, mi impedisse sul serio di avere una vita sessuale, beh, allora non solo mi spreterei ma rischierei di perdere la fede. A volte, facendo l’amore con la tua amica, percepisco la gloria di Dio. Scopare, posso assicurartelo, mi rende un prete migliore”.
(Il ricordo del poliziotto è durato una frazione di secondo, ha ruotato come un prisma luminoso nella mia mente con molte più sfaccettature di quante ne ho riprodotte nel mio resoconto, da qui gli enormi limiti e le lungaggini della scrittura, ma pure, forse, la persistenza della sua necessità, se si vogliono comunicare determinate sensazioni).
A ogni modo… viaggiando sulla Cristoforo Colombo, ogni giorno, tornando all’Esquilino dopo aver compiuto la mia visita in Ospedale, mi capita di incrociare il Palazzo delle Poste.
Me ne accorgo sulla via del ritorno, quando la visita in Ospedale si è appunto conclusa e sono un poco più rilassato. Il Palazzo delle Poste è uno dei pochi grattacieli di Roma. Lo si trova poco dopo il laghetto artificiale, all’incrocio con viale Europa.
È un edificio tutto nero, sembra fatto di acciaio brunito, uno stile inusuale per una città che ha sempre preferito lo sviluppo orizzontale, i colori chiari, le forme curvilinee, e che diffida culturalmente di quei menhir moderni che sono i grattacieli. Anche io diffido dei grattacieli, soffro di un pregiudizio, ne sono consapevole.
(Quando a Parigi salgo sul tetto del Beaubourg, da cui si domina la città, il mio sguardo si fissa ossessivamente sulla Tour Montparnasse, l’enorme grattacielo nero che stupra a mio modo di vedere il XIV arrondissement e l’intero panorama urbano, detesto quel grattacielo, lo guardo come se tutto il male di Parigi fosse concentrato lì e da lì si irradiasse per cerchi magici a tutta la città).
Tornando a noi, il Palazzo delle Poste è il sesto edificio più alto di Roma. Altri quattro sono tutti concentrati all’EUR. Sono la Torre Eurosky, la Torre dell’Europarco, la Torre piezometrica (il famoso Fungo) e il palazzo dell’Eni, che domina il menzionato laghetto. Il più alto di essi, la Torre Eurosky, si sviluppa per 120 metri. Sono tutti più bassi della Cupola di San Pietro.
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Tour Montparnasse, Parigi.
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Questa storia che il Cupolone non possa essere superato da altri edifici romani è una leggenda metropolitana. Non c’è scritto da nessuna parte, né nei Patti Lateranensi né in una delibera urbanistica. Quando l’ex sindaco Alemanno fece anni fa la sua piccola sparata dichiarando che il Comune di Roma avrebbe per la prima volta deliberato la possibilità di costruire edifici più alti della cupola michelangiolesca, dai Musei Vaticani risposero seraficamente: “ma chi ve l’ha mai impedito”. Non c’è mai stato un vincolo urbanistico.
Nei documenti nazionali e nei piani regolatori compaiono riferimenti alla salvaguardia dei palazzi storici, regole e norme per garantire l’equilibrio del tessuto urbanistico e dei motivi estetici dominanti in città, ma non c’è mai stata una legge, un regolamento, un accordo formale tra Stato e Santa Sede per evitare che il Cupolone venisse superato in altezza da altri insediamenti.
Eppure il Cupolone, a oltre quattrocento anni dalla sua costruzione, non è stato ancora superato in altezza da nessuno. Come è possibile?
Il Cupolone è un simbolo religioso. Anche i grattacieli celebrano un dio. (Quando parlavo di menhir non era una boutade). Ho l’impressione che Roma, città pigra e sorniona, in saggio ritardo su grandi metropoli come Londra, Parigi, New York, sfrutti la sua lentezza per evitare di imbarcarsi in imprese che qui non sono ancora iniziate mentre lì già mostrano segni di decadenza.
Se il dio dei grattacieli è in crisi a New York, che senso ha cominciare a celebrarlo in ritardo a Roma
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Il Cupolone, basilica di San Pietro in Vaticano.
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La basilica di San Pietro fu consacrata nel 1626, quando il cristianesimo era già in fase declinante, aveva dato il meglio nei secoli passati. Almeno a Roma, non ci credeva veramente quasi più nessuno. Non almeno come ci credevano prima. I grandi simboli architettonici sono anche amorevoli pietre tombali. Quando San Pietro venne consacrata, l’America era stata scoperta da oltre un secolo e Galileo stava scrivendo (proprio in quegli anni) il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo.
Se devo trovare il momento in cui la prodigiosa religione del Dio fattosi uomo cede il passo (cessa la sua fase di esplosione, comincia quella di rilascio) lo individuerei forse nel passaggio dall’arte bizantina a Cimabue. Quando guardo un quadro di Giotto ho ancora un sussulto in gola. Guardo un quadro di Piero della Francesca e mi sale una tristezza infinita (pure nella bellezza assoluta di ciò che sto osservando), mi viene da piangere, come se avessi la testimonianza di qualcosa di grandioso che è finito. (Piero della Francesca è per me, in termini cristiani, l’equivalente di Plutarco quando annuncia la morte di Pan). Mi è sempre sembrata dunque un po’ esagerata la fama di Nietzsche che annuncia la morte del Dio cristiano quando tutto era già chiaro (olio su tela) nelle opere d’arte del XV secolo.
A ogni modo il Cupolone, supremo simbolo architettonico del cristianesimo, viene eretto a Roma quando quel Dio ha già dato il meglio, simile a un astro che, spegnendosi, diffonde il suo calore per onde sempre meno calde, sempre più tiepide, e dolci.
Nemmeno 250 anni dopo la consacrazione di San Pietro, sorgeranno i primi grattacieli. L’Home Insurance Building di Chicago viene inaugurato nel 1885, il World Building di New York è del 1890.
Il Cupolone è (trinitariamente) alto 133,3 metri di altezza. La piramide di Cheope aveva un’altezza originaria di 146,5 metri, fu l’edificio più alto del mondo per più di 3800 anni. La Cattedrale di Colonia tocca i 157 metri nel 1890. Ma ecco la torre Eiffel (312 metri nel 1889), l’Empire State Building (381 metri nel 1931), e così via. Da qui in poi gli edifici cosiddetti laici supereranno in altezza quelli religiosi. Quando si parla di opere realizzate da un animale così emotivo, instabile e irrazionale come l’uomo, ci andrei piano con la parola “laico”. A me sembra piuttosto che mentre quello dei cristiani sia un Dio rivelato quello celebrato dai grattacieli sia un Deus absconditus.
Comunque Roma erige il suo bel Cupolone quando il cristianesimo è in una crisi non del tutto conclamata, e un mondo nuovo sta dischiudendo i propri occhi. Passano i decenni, qualche secolo. La Città Eterna osserva cosa fanno gli altri, guarda da lontano il mondo nuovo, tutti questi grattacieli sempre più bizzarri che iniziano a invadere lo spazio di Chicago, di New York, e poi Londra e addirittura di Parigi, e ancora Tokyo, Kuala Lumpur, Dubai… osserva pigramente queste fabbriche, questi grandi cantieri, chiedendosi se il nuovo dio a cui sono consacrati reggerà, e per quanto. Mai scetticismo fu tanto ben riposto.
Ecco che in un tempo relativamente breve comincia a entrare in crisi anche il dio dei grattacieli. La città di Roma, constatato l’ennesimo fallimento, non si spreca a costruire edifici più alti del Cupolone per non coprirsi di ridicolo, non se la sogna di rendere omaggio a un dio che non solo è anche lui ormai un astro mezzo spento, ma non ha retto lo straccio di tre secoli. È come se Roma allora avesse “saltato un dio” e adesso sonnecchiasse, in saggia attesa, sospesa in uno spettacolare vuoto spirituale.
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Piramide di Cheope, Giza.
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Un mondo senza spirito è però impossibile per l’uomo. Se il dio dei grattacieli ha voluto sostituire il dio dei cupoloni, chi o cosa sta sostituendo il dio dei grattacieli? Quali forze emotive, spirituali, si muovono invisibili per il mondo, sotterranee, nei nostri sogni, in attesa di addensarsi in modo un po’ più chiaro, e ricevere, se non un nome, uno stile architettonico? E se il nuovo dio non si mostrasse questa volta attraverso l’architettura, non attraverso un libro, ma attraverso una pratica, una serie di gesti che gli uomini potrebbero iniziare a compiere tutti insieme, in modo sempre più diffuso, senza mettersi d’accordo, e dalla cui somma emergesse (dopo un Dio rivelato e un Deus absconditus ci aspetta forse un dio emergente come fenomeni “emergenti” sono la coscienza e il linguaggio) un significato sempre più chiaro? Oppure tutto questo è già iniziato? La singolarità è appena alle nostre spalle e non ce ne siamo accorti?
Torniamo coi piedi per terra.
Come dicevo, questa mia avventura architettonica (e memorialistica: la storia del poliziotto) la devo alla mia recente frequentazione dell’Ospedale. Non c’è luogo come un Ospedale – e non c’è dimensione come quella della malattia – dove il vuoto di cui parlavo diventa evidente. Come dobbiamo parlare con i malati? Come possiamo dare conforto agli infermi? Cosa dobbiamo dire? E cosa dobbiamo fare? Dobbiamo accarezzarli, abbracciarli, osservarli in silenzio, prendergli la mano? Dobbiamo confortarli a colpi di verità o di menzogne? Dobbiamo fare lunghi discorsi, i sermoni dei sani su come i malati farebbero meglio ad affrontare la malattia, oppure dobbiamo imbarcarci in discorsi frivoli, che li distraggano dal momento difficile, a volte terribile, che stanno affrontando? Dobbiamo provare a entrare nel loro dolore, nel loro terrore, o, per quel che possiamo, dobbiamo tirarcene fuori noi, e confortarli dalle pur mutevoli spiagge della salute, mentre il mare è per loro in tempesta Questa impasse diventa esplosiva nei reparti oncologici, da uno dei quali scrivo.
I preti, le suore, i religiosi, negli ospedali confortano i malati, gli parlano della vita che verrà. Peccato che non siano più credibili. I malati li ascoltano, si disperano lo stesso. Quanto più sono giovani tanto più si disperano. Pur volendo affidarsi a quel Dio, di fatto non ci credono più. Le generazioni che non si disperavano stanno scomparendo o sono scomparse. Quei vecchi (gli attuali centenari, i novantenni di dieci anni fa, gli ottantenni di vent’anni fa) ricevevano conforto da chi parlava loro della vita che verrà, perché il tiepido rilascio del Dio cristiano, ormai assente, entrava ancora nelle loro case, toccava con dolcezza le loro vite. Adesso non è più così, i malati si disperano davanti alle prediche dei preti e delle suore, non gli credono, arrivano sotto sotto a disprezzarli.
Ma disprezzano anche i discorsi dei medici. Se non trovano consolazione nella vita che verrà, i malati sono giustamente nauseati dalle statistiche, dai giochi probabilistici delle scienze mediche, dai calcoli sull’aspettativa di vita stimata sulla base della reattività di una determinata malattia rispetto a una determinata e speculare tempesta chimica. Il Dio cristiano non li conforta. Il dio della modernità, signore dei lumi e del pensiero calcolante, nemmeno.
La nostra architettura spirituale perde pezzi ogni giorno. Siamo in un vuoto che attende di riempirsi. Chi ci verrà in soccorso?
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Empire State Building, New York.
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Esiste una presenza, nell’oceano, che raramente cogli nelle ore di veglia, e che visualizzi meglio nei sogni. Mentre scivoli nel sonno, le tartarughe cavalcano la curva degli abissi, cercando respiro in superficie e ispirazione dal cielo; dalle placide insenature tropicali, o dalla schiuma che sibila in vortici da incubo, affiorano non viste a condividere la nostra aria. Ogni brusca espirazione afferma: «La vita resiste, nonostante tutto». Ogni inalazione profonda è un giuramento: «La vita continuerà». Ogni loro respiro è una dichiarazione alle stelle e al silenzio indomito. Di notte e con la luce, le tartarughe marine sempre si librano in quel loro universo parallelo stranamente alieno, eppure intrecciato con il nostro.
Cavalcando le maree mutevoli nell’oceano turbolento, e senza resistere ad alcun impulso, si spostano: non motivate dal desiderio, dall’amore o dalla ragione – ma regolate da una saggezza più antica del pensiero, e quindi forse più meritevole di fiducia. Attraverso torride lagune azzurre come gemme, in verdi acque impetuose e fredde, questi angeli dell’abisso avanzano remando – progenitori del nostro
mondo, antichi e senza età.
Ultimo mostro rettiliano dal sangue caldo rimasto sulla Terra, tutta avvolta nella sua pelle, la Tartaruga Liuto, i cui antenati videro dominio e caduta dei dinosauri, è lei stessa quanto di più vicino ci sia a un dinosauro vivente.
Il brano citato, le cui prime righe avevo riprodotto all’inizio di questa storia, è tratto da Il viaggio della tartaruga del biologo statunitense Carl Safina. L’ho ricopiato nella traduzione di Isabella Blum per Adelphi, l’editore italiano del libro.
Quella di Safina è una lunga e dettagliata dissertazione sulle abitudini della tartaruga Liuto. Il cosiddetto “Leviatano delle tartarughe”, l’esemplare più grande del suo ordine, segue stupefacenti tragitti migratori che coprono migliaia di chilometri. Passa dalle acque equatoriali al gelo artico. Attraversa l’Atlantico. Arriva sulle coste d’Europa e d’Africa. Raggiunge le coste orientali degli Stati Uniti, quelle del Canada. Si potrebbe dire che il suo viaggio abbraccia l’intero pianeta. Viaggia per deporre le uova, per nutrirsi, per sfruttare le correnti ricche di cibo, per favorire la diversità genetica grazie all’incrocio tra diverse popolazioni della specie.
Dà l’impressione, soprattutto, di viaggiare in accordo e sintonia con l’ago magnetico del nostro pianeta. Le sue lunghe migrazioni (in certi casi oltre 15.000 Km) sono il frutto di un’evoluzione lunghissima. I primi esemplari delle tartarughe Liuto sarebbero comparsi infatti, pressoché identici, oltre sessanta milioni di anni fa, forse anche prima (il loro lignaggio genetico risalirebbe a 100 milioni di anni fa).
Non a caso Safina li associa ai dinosauri. Ma oltre la vertigine offerta dall’esistenza di una creatura così complessa e così antica, nostra contemporanea ma proveniente dalla notte dei tempi, ciò che colpisce, nell’approccio di Safina, è il nostro potenziale rapporto con creature di questo tipo. Mi riferisco a quando Safina scrive che per noi umani il passaggio sottomarino delle tartarughe Liuto è difficile da cogliere nelle ore di veglia, mentre sarebbe più facile percepirlo in sogno.
Che cosa vuole dire? È una licenza poetica, un cedimento alle suggestioni della letteratura. Eppure, da scienziato, Safina sembra anche voler insinuare, nel mondo dei simboli e della finzione, un grano di possibile realtà. Perché mai nei nostri sogni dovremmo essere capaci di visualizzare le tartarughe Liuto?
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È qualche anno che ci interroghiamo con sempre maggiore drammaticità sul nostro posto nel mondo. Complici la crisi climatica, le guerre, lo sviluppo esponenziale (e potenzialmente annichilente) della tecnologia, ci chiediamo se l’antropocentrismo a cui ci siamo consacrati per mezzo millennio sia ancora una risorsa, o rischi al contrario di diventare la condanna della nostra specie.
Metterci al centro della scena ha portato indubbi vantaggi, per esempio il riconoscimento a ogni individuo di diritti che nel “vecchio ordinamento” sarebbero stati impensabili. Al tempo stesso, l’accentramento ha prodotto dentro di noi una frattura psichica. Crederci il cuore delle cose non ci fa sentire più parte dell’intero. Siamo noi e il mondo, non noi nel mondo. Il mondo è diventato qualcosa da assoggettare, sfruttare, dominare, mungere, col risultato che quel “centro” in cui ci saremmo collocati è anche un “fuori”.
È così che siamo diventati le creature più violente e più sole del mondo, impegnate a segare (un’immagine che ci si ripropone sempre più ossessivamente) il ramo su cui siamo seduti. Abbiamo abbandonato i vecchi dèi, il Dio cristiano, ma quello tra le cui braccia credevamo di riposare tranquilli fino a poco tempo fa è ormai fragile anche lui.
La tartaruga Liuto è ben inserita nel mondo, ne fa parte, è una delle infinite possibilità venute fuori dalla negoziazione universale (è l’agente e al tempo stesso il frutto di questa interazione, un gioco in cui ogni cosa è al tempo stesso centro e periferia di qualcos’altro), conosce il tragitto da compiere quando attraversa i mari. Conosce, da milioni di anni, il suo posto nell’universo. È in sintonia con l’ago magnetico del mondo. Noi invece abbiamo perso la rotta. Ci si augura in modo temporaneo.
Così, nei sogni, come scrive Safina, visualizziamo forse queste forze primigenie nella speranza che ci ricordino “come si fa”. Il poliziotto che attraversa come un pazzo la Cristoforo Colombo. Il prete antimafia che si fa la storia con la mia amica. Gli avvocati che pippano sull’albedo di un cocomero. Io che non so come tenere la mano di un malato. Potete leggerli come diversi tipi di stranezza, di idiozia, di incoerenza, di incapacità, o come una serie drammatica, a volte assurda, di manovre (errore dopo errore) per ritrovare la rotta. Balbettii, tentativi di tornare a parlare dopo aver perso l’alfabeto.
In attesa che le migliori energie che attraversano i sapiens durante questa tumultuosa mutazione trovino un nome o un volto meno incerto, dobbiamo continuare a provare, a fallire, a renderci ridicoli. Guarderei con compassione ai nostri rozzi sistemi per ritrovare la rotta.
Visto che leggete ad agosto questa missiva scritta nel caldo torrido di un luglio urbano, l’augurio per tutte e tutti è che il ritmo rallentato dell’estate, il mare da cui veniamo, le poderose montagne, il tempo rarefatto, il cambio d’abitudine, il sole, gli scrosci d’acqua, le strade aperte, i cieli stellati, ci aiutino a decalcificare l’osso o la coclea o la membrana (o cosa diamine è) che nella nostra testa ha smesso di funzionare come un bussola, nella speranza di ritrovare l’accordatura, così da unirsi al coro (da Liuto a liuto, potremmo dire) che canta da troppo tempo senza di noi.
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