Hiroshima e Nagasaki. Non solo un “anniversario” ma occasione di rinnovato impegno di condanna alla guerra
“‘Ho visto una grande luce!’. Così, rientrando di corsa in casa la mattina del 6 agosto 1945, una giovane madre giapponese che abitava a un centinaio di chilometri da Hiroshima aveva esclamato abbracciando il suo figlioletto di dieci anni, Kenzaburo Oe, futuro premio Nobel per la letteratura. Aveva fatto la sua tragica comparsa all’orizzonte dell’umanità la bomba atomica. Luce di morte e di devastazione. Eppure il cristiano non può non collegare quella data (il 6 agosto) e quell’esperienza (‘una grande luce’) alla festa della Trasfigurazione del Signore che proprio in quella data si celebra a partire dal IV secolo in Oriente e dall’XI in Occidente”. È una riflessione che mi era arrivata dal Monastero di Bose, già qualche anno fa. Credo sia di grande aiuto a vivere con profondità anche oggi questo tragico anniversario della bomba su Hiroshima e poi, il 9 agosto, su Nagasaki. Non può essere solo un “anniversario” ma occasione di rinnovato impegno, preghiera e denuncia di fronte alla minaccia reale di uso delle bombe nucleari e al grande numero di bombe nucleari nel mondo, oltre 13.000, e alla presenza anche sul territorio italiano, a Ghedi (Bs) e ad Aviano (Pd) di alcune decine di testate, non italiane ma degli Usa. Potremmo dire: non siamo padroni a casa nostra. Molte volte Papa Francesco è intervenuto denunciando l’immoralità non solo dell’uso ma anche del possesso di questi ordigni di morte. E con la campagna “Italia ripensaci” chiediamo da anni di aderire al trattato Onu che proibisce le armi nucleari, approvato il 7 luglio 2017 ed entrato in vigore il 22 gennaio 2021.
Ma oggi non possiamo dimenticare ciò che è accaduto nella notte tra il 6-7 agosto 2014. La grande avanzata dell’Isis (Daesh) nel nord dell’Iraq, oltre 100.000 persone in fuga dai vari villaggi e città. Disperazione, violenze, rapimenti, uccisioni. A pagare sono state le minoranze: i cristiani e anche gli yazidi, una piccola minoranza indifesa che vive nel nord dell’Iraq, principalmente nella provincia di Ninive. Ricordare quella tragica notte, preceduta da violenze indicibili già nelle settimane precedenti con la conquista di Mosul da parte dell’Isis, ci obbliga a non dimenticare soprattutto le donne! Da sempre, in ogni guerra, in qualsiasi parte del mondo le donne pagano il conto più alto della guerra. Sono considerate “bottino di guerra”. E sempre, dove c’è guerra, ci sono stupri e violenze di ogni genere sulle donne. In quella notte e nei giorni di luglio/agosto 2014, migliaia di donne yazide sono state rapire per essere “usate come schiave sessuali”. Una tragedia incommentabile. Oggi, come scrive il quotidiano Avvenire, nella zona abitata dagli Yazidi ci sono ancora “80 fosse comuni da scavare e 2.600 donne rapite di cui non sa più nulla”. Chi ha dato voce a queste donne è Nadia Murad, anch’essa rapita, all’età di 21 anni, e tenuta in quelle condizioni di schiavitù sessuale. È poi è riuscita a fuggire e nel 2017 pubblica il libro “L’ultima ragazza”, edito da Mondadori. Nel 2018 riceve il premio Nobel per la pace insieme a Denis Mukwege, della Repubblica Democratica del Congo, che cura le donne vittime di violenze sessuali. Papa Francesco, che si è recato in Iraq nel marzo 2021, disse che fu proprio la lettura di questo libro di Nadia Murad a convincerlo nella scelta di andare in Iraq. E forse anche per questo ha scelto, nella Via Crucis del Venerdì Santo 2022, di far portare la croce a due donne: una ucraina e una russa.
Sì, oggi non è solo un “anniversario”, un giorno di doverosa memoria, ma un giorno per rinnovare l’impegno di condanna alla guerra. A dire: basta! E di presa di coscienza che le guerre le decidono gli uomini, i maschi, ma le prime vittime sono le donne. Ieri come oggi.
* Consigliere nazionale di Pax Christi
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