Il Placito Capuano, un verdetto che ha cambiato la storia
«Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti». Sarà capitato a molti di imbattersi, tra i banchi di scuola, nelle prime attestazioni della lingua italiana, e quindi, nella formula testimoniale del più antico documento del volgare romanzo, il Placito Capuano che recita così: “so che quelle terre, entro quei confini di cui qui si parla, trenta anni le possedette la parte di san Benedetto”. Il testo riecheggia nella mente di quanti, da studenti, l’avranno tradotto e imparato.
Il Placito Capuano rappresenta per linguisti e storici un tesoro prezioso, che riporta alla memoria le radici della nostra lingua, permettendoci di comprendere e analizzare l’evoluzione della stessa nel corso dei secoli.
Datato tra il 960 e il 963 d.C., a Capua, il documento può essere inserito nell’ambito di una controversia riguardante la proprietà di alcune terre, tra il monastero di Montecassino e la nobiltà longobarda locale, ma la testimonianza fa parte del più ampio contesto dei Placiti Campani, comprendenti anche la zona di Sessa Aurunca e Teano. Si tratta di sentenze redatte in latino, con la sola eccezione della voce dei testimoni che viene riportata in volgare o, meglio, in un tipo di italiano embrionale dell’epoca. L’uso del latino nel mondo del diritto ha creato una forte continuità con la lingua giuridica romana, caratterizzata da un linguaggio tecnico, preciso ma soprattutto univoco, non interpretabile a seconda della soggettività dell’individuo. Il latino, come lingua franca – cioè, lingua ponte, capace di fungere da strumento di comunicazione tra persone che hanno lingue madri diverse – dell’Europa medievale e rinascimentale, ha facilitato il lavoro dei giuristi delle diverse cancellerie nazionali. Ciò ha permesso il prolifico scambio e confronto di conoscenze al fine di creare un linguaggio tecnico comune.
La controversia tra l’Abbazia di Montecassino e il nobile Rodelgrimo, è nata a seguito del possesso di alcune terre che, secondo il principio dell’usucapione, sarebbero dovute andare ai monaci benedettini del complesso cassinate. L’Abbazia benedettina nel corso del tempo ha svolto un importante ruolo per lo sviluppo storico della lingua italiana e sebbene non rappresenti il vero e proprio sito di nascita della nostra lingua, la sua importanza risiede nella funzione di “quartier generale” e centro culturale di diffusione della scrittura in volgare durante tutto l’arco medievale. Grazie alla sua posizione strategica, Montecassino è stato punto di incontro per i monaci che intraprendevano impegnativi viaggi in tutta la penisola per diffondere la Regola, in latino indicata come “Regula monachorum o Sancta Regula”, dettata da San Benedetto da Norcia nel 534 e basata sui precetti del silenzio, umiltà e obbedienza. I padri religiosi, abili scribi e copisti, trasportando i loro manoscritti e le loro conoscenze, hanno contribuito alla diffusione della cultura, alla corretta morale da seguire e all’avvio verso l’evoluzione della lingua italiana, processo che è avvenuto per mezzo dell’omelia e della predicazione. Oggi, Montecassino continua ad esercitare il suo ruolo di importante punto di riferimento culturale e religioso, rinato e ricostruito a seguito dei bombardamenti risalenti alla Seconda Guerra Mondiale, memoria alimentata e tramandata ai posteri attraverso l’Archivio Storico Comunale di Cassino e il Museo multimediale Historiale di Cassino.
Il Placito Capuano rappresenta una viva testimonianza a conferma di come il volgare sia stato già allora una lingua in uso nella comunicazione quotidiana. Stefano Asperti, professore di Filologia e linguistica romanza alla Sapienza di Roma, ha condotto importanti studi sul portato del volgare, sostenendo che le formule testimoniali pronunciate non in latino, siano garanzia della verità dei fatti ed evidenze comunicative atte a facilitare, per gli illetterati, la comprensione testuale.
Il Placito ci offre quindi, uno spaccato delle radici della lingua parlata frutto di un lungo processo caratterizzato non di rado dalla “lotta” con il latino, vista come lingua dei dotti e dei letterati; solo nel Cinquecento, infatti, l’italiano acquisisce la cittadinanza di lingua letteraria tout court e si avvia verso il processo di codificazione normativa.
Sebbene oggi non sia la lingua più studiata al mondo, l’italiano si classifica tra le prime dieci posizioni degli idiomi più studiati e la sua popolarità è in crescita costante, basti pensare al ruolo che occupa in Giappone: l’interesse per la nostra lingua e cultura non ha eguali e l’Opera musicale italiana gode di grande popolarità.
“Una lingua rappresenta la memoria collettiva «naturale» di una popolazione, se questa, per impossessarsi di un nuovo strumento linguistico, perde il contatto con il suo mezzo d’espressione più antico, diviene del tutto incapace di riconoscersi nelle proprie tradizioni: come potrà, allora, affermare la propria identità?”. Con queste parole William Butler Yeats, poeta e scrittore irlandese, riflette sul legame profondo tra una lingua e l’identità di un popolo. Il linguaggio in tal senso è bagaglio di esperienze, conoscenze, tradizioni e valori, e per suo mezzo si tramandano alle generazioni future la storia, la cultura e la visione del mondo.
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