L’Europa era uscita devastata dalla Grande Guerra e dalla Febbre Spagnola. Dopo cinque anni di conflitto e due di epidemia, anche il mondo dello sport aveva pagato un prezzo durissimo: almeno 115 atleti olimpionici avevano perso la vita nei combattimenti.
Nel 1920 però c’è voglia di ripartire. Il Cio decide all’unanimità di assegnare i Giochi Olimpici ad Anversa. Simbolicamente si sceglie il Belgio, uno dei campi di battaglia che aveva subito le maggiori distruzioni, con gran parte delle città da ricostruire. Lo strascico del conflitto si vede anche nelle assenze ai Giochi: escluse le Nazioni sconfitte come Germania, Austria, Ungheria, Bulgaria e Turchia, manca anche la Russia, che rifiuta l’invito per motivi politici.
Nella cerimonia di inaugurazione ci sono tre novità che fotografano, anche qui simbolicamente, la nuova atmosfera di speranza e di pace che si vuole respirare: viene recitato il Giuramento Olimpico, scritto dal barone Pierre de Coubertin. Viene innalzata la nuova bandiera olimpica a cinque cerchi. E vengono liberate in volo le colombe bianche, in segno di pace.
Le armi stavolta servono solo per lo sport, non per la guerra: da record il programma di tiro, con ben 21 gare. La stampa ironizza dicendo che “ad Anversa si è sparato più che a Verdun”. A pieno regime anche il programma di scherma, che in quella edizione dei Giochi viene dominato da due fratelli italiani: Nedo e Aldo Nadi.
Comincia dal 1920 una tradizione: quando si tira di scherma, il Medagliere azzurro sorride.
Protagonista della nostra storia è Aldo Nadi, ben tre ori nella scherma ad Anversa 1920, tutti di squadra, ma anche una dolorosa medaglia d’argento. Sconfitto nella sciabola individuale dal fratello Nedo. Quel duello perso e rimasto senza rivincita, Aldo Nadi non lo dimenticherà mai. Vivrà per sempre con l’assillo di dimostrare di essere lui il più grande.
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Leggere il Main Kampf e assistere a un comizio di Adolf Hitler ha un effetto travolgente su Leni Riefensthal.
Lei, giovane attrice di film muti, regista e sceneggiatrice, decide di scrivere a Hitler per chiedere un incontro. A sua volta Hitler assiste alla proiezione del suo film, “La bella maledetta”, ambientato tra le montagne di Cortina d’Ampezzo, e rimane favorevolmente impressionato.
Sono i primi anni ’30, Hitler è cancelliere tedesco e cerca un Wagner nel cinema, per dare della Germania un’immagine di potenza e bellezza, per regalare eternità al suo progetto di Terzo Reich. Quando Hitler incontra Leni Riefenstahl decide di affidarle la realizzazione di un cortometraggio sul congresso del Partito nazista a Norimberga, nel settembre 1933. Quell’opera, “La vittoria della fede”, conquista Hitler, che a malincuore l’anno successivo ordina la distruzione di tutte le copie perché in molte scene figura Ernst Rohm, principale vittima dell’epurazione della Notte dei lunghi coltelli, che azzera le SA. Leni Riefenstahl riesce a conservarne una sola copia, conservata ancora oggi a Berlino.
Hitler commissiona alla Riefenstahl un nuovo cortometraggio per il congresso nazista del settembre 1934. Le mette a disposizione tutti gli operatori cinematografici di Germania e le tecnologie più avanzate: con il grandangolo trovano spazio le folle oceaniche che osannano il Fuhrer, la sovrastante musica wagneriana rende “Il trionfo della volontà” un’opera di propaganda capace di magnificare il regime nazista e il carisma del leader. Il film impressiona il Fuhrer, ma guasta i rapporti della Riefensthal con l’esercito tedesco, messo ai margini nel film, e con il potentissimo ministro della Propaganda Joseph Goebbels, che non tollera la sua eccessiva autonomia.
Quando nel 1936 Hitler chiede a Leni Riefenstahl di realizzare “Olympia”, il film sui Giochi Olimpici di Berlino, la regista ottiene alcune garanzie: può produrre direttamente il film, senza passare dal Partito nazista e può filmare senza passare per i filtri di Goebbels. Riefenstahl si ritrova a visionare oltre 400.000 metri di girato, impiega due anni per la selezione delle scene e il montaggio.
Quel che ne esce è un’opera monumentale, un’esaltazione della nuova Germania e dell’estetica nazista; con l’uso del dolly e del rallentatore indugia sulla perfezione del gesto atletico; la grandiosità colossale degli impianti realizzati dall’architetto Albert Speer e le musiche sinfoniche di Wagner rendono epico il racconto.
Rendono immortali anche i trionfi di un atleta afroamericano, Jesse Owens, il protagonista assoluto delle Olimpiadi di Berlino. Leni Riefenstahl celebra nel suo film anche le quattro medaglie d’oro vinte da Owens in una settimana, con i record mondiali nei 100 metri e nella staffetta 4×100, i record olimpici nei 200 metri e nel salto in lungo. Con buona pace di Goebbels, che voleva celebrare i trionfi della razza ariana e chiamava gli atleti come Owens gli “ausiliari negri americani”.
Protagonista della nostra storia è Luz Long, l’atleta tedesco che con Jesse Owens perde la sfida nel salto in lungo, ma conquista un’amicizia fraterna.
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LA LOCOMOTIVA E IL PRIMO VAGONE
Mimoun vs Zatopek
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Quella figura, vista di spalle, Alain Mimoun l’avrebbe riconosciuta tra migliaia, per averla inseguita per quasi un decennio. Quel collo incassato tra le spalle, l’andamento sgraziato nella corsa, le scapole prominenti, i gomiti larghi, le braccia aderenti al corpo, la testa all’indietro che oscilla incessantemente. A dire il vero Alain Mimoun avrebbe riconosciuto quella figura anche con gli occhi bendati. Avrebbe sentito quel rumore inconfondibile, quel modo strano di prendere l’aria a bocca aperta e di ansimare pesantemente, mentre le gambe rullavano e macinavano chilometri ad altissima velocità. Erano gli sbuffi della Locomotiva umana, era Emil Zatopek.
Protagonista della nostra storia è Alain Mimoun, l’ombra di Emil Zatopek. L’eterno sfidante che lo ha reso leggendario. L’uomo che ha atteso 3076 giorni e tre Olimpiadi per riuscire a sopravanzarlo. E che al culmine di una vita e di una carriera fuori dall’ordinario, è stato eletto atleta francese del Novecento.
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Il Giappone aspettava da anni di poter ospitare le Olimpiadi. Doveva organizzare l’edizione del 1940, ma i Giochi saltano per lo scoppio della seconda guerra mondiale. Dal conflitto il Giappone esce sconfitto militarmente e viene escluso dai Giochi nel 1948, per essere riammesso a pieno titolo dal Cio nel 1950. In quegli anni la diplomazia sportiva porta a una progressiva riabilitazione delle forze dell’Asse nel consesso olimpico: i Giochi vengono assegnati prima a Roma nel 1960, poi a Tokyo nel 1964 e infine a Monaco nel 1972.
Nel 1964 Tokyo è pronta a mostrarsi in tutto lo splendore del suo boom industriale. Gli stadi sono nuovi, modernissimi, strapieni di pubblico entusiasta, tanto rumoroso quanto inesperto di molti sport a cui assiste. Il Giappone porta in dote per la prima volta ai Giochi due nuove discipline: la pallavolo femminile e il Judo, diviso in quattro categorie di peso. Proprio nel Judo si sta per consumare un dramma nazionale.
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“Fa la cosa giusta” è il titolo del capolavoro cinematografico di Spike Lee, portato per la prima volta a Cannes nel maggio 1989. Il regista sceglie una citazione di Malcolm X per il titolo del suo manifesto politico, una cruda riflessione sullo stato della questione razziale in America. Molti hanno capito quel film diversi anni dopo, alcuni lo hanno accusato di fomentare rivolte degli afroamericani. Questa è una delle accuse rivolte oltre 20 anni prima a Tommie Smith e John Carlos, i due velocisti americani protagonisti della protesta più celebre della storia dei Giochi Olimpici. Il loro pugno alzato in guanto nero, durante la premiazione dei 200 metri, alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968, è un’immagine potente, indelebile, il punto più alto della loro carriera e allo stesso tempo la fine della stessa.
Ma sopra quel podio c’è un terzo uomo, quasi invisibile. Se non si sta attenti si rischia di non notarlo nemmeno. Sì, perché si può arrivare secondi in una gara diventata leggenda ed essere inghiottiti nell’ombra. Si può registrare un record nazionale che resiste ancora oggi, dopo oltre 50 anni, ma essere ignorato e offeso dalla propria Federazione. Si può pagare per tutta la vita la solidarietà, espressa in modo discreto, a una protesta rabbiosa. Diversi anni dopo, quel terzo uomo ricorda quei momenti senza rimpianti: “Non sono mai stato perfetto, non ero particolarmente buono o cattivo, ma quel giorno credo di aver fatto la cosa giusta”.
Protagonista della nostra storia è Peter Norman, il terzo uomo, l’uomo bianco dell’istantanea più iconica della storia olimpica.
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