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La squadra olimpica dei rifugiati, testimoni universali dello spirito olimpico

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Quando si parla di spirito olimpico, di olimpismo, oggi molti esperti e storici dello sport ritengono che la massima espressione di questo sentimento universale di armonia e pace risieda nel “Refugee olympic team”, la squadra olimpica dei rifugiati: è stata creata dal Comitato internazionale olimpico (Cio) nel 2015, in vista dei Giochi della XXXI Olimpiade di Rio de Janeiro del 2016. A Parigi sarà quindi presente per la terza volta consecutiva ai Giochi Olimpici, e sarà composto da 37 atleti di diversa provenienza, che vivono in 15 Paesi ospitanti, e gareggeranno in 12 sport diversi: un numero crescente rispetto agli originali 10 del 2016 e ai 29 di Tokyo 2020. A Parigi il Team rappresenterà oltre 100 milioni di sfollati a livello globale. Dopo un primo periodo di accoglienza in Francia, a Bayeux – dove hanno partecipato ad alcune celebrazioni per l’80° anniversario dello sbarco in Normandia – gli atleti si trasferiranno, in vista delle gare, nel Villaggio Olimpico di Parigi, e parteciperanno alla cerimonia di inaugurazione il 26 luglio, con la novità della crociera delle squadre nazionali sulla Senna. Secondo il calendario delle reciproche gare ad alcuni atleti verrà data l’opportunità di tornare nel proprio Paese ospitante o in un campo di allenamento di propria scelta per garantire una preparazione ottimale per i Giochi Olimpici.
Il Refugee olympic team e il Refugee athlete support programme, entrambi gestiti dall’Olympic refugee foundation (Orf), consentono agli atleti d’élite che si trovano ospitati da un Paese come rifugiati politici, in quanto profughi o richiedenti asilo, e che quindi non avrebbero l’opportunità di competere ai Giochi Olimpici, di potervi partecipare sotto la bandiera dei 5 cerchi. La stragrande maggioranza degli atleti è stata selezionata tra gli atleti rifugiati supportati dal Cio attraverso un programma dedicato all’assistenza sportiva nei campi profughi e finanziato dal programma di solidarietà olimpica del Cio e gestito dalla Orf. I 36 atleti selezionati sono ospitati dai Comitati olimpici nazionali di Austria, Canada, Francia, Germania, Gran Bretagna, Israele, Italia, Giordania, Kenya, Messico, Paesi Bassi, Spagna, Svezia, Svizzera e Usa. Gareggeranno in atletica, badminton, boxe, breaking, canoa, ciclismo, judo, tiro sportivo, nuoto, taekwondo, sollevamento pesi e lotta. Un progetto che parte dalle scuole, ipotizza la realizzazione in futuro anche di team anche per gli sport di squadra.
L’Alto commissario delle Nazioni unite per i rifugiati, Filippo Grandi, ha affermato: “Il team olimpico dei rifugiati dovrebbe ricordarci la resilienza, il coraggio e le speranze di tutti coloro che sono stati sradicati dalla guerra e dalla persecuzione. Questi atleti rappresentano ciò che gli esseri umani possono fare, anche di fronte a estreme avversità”. Secondo Grandi, “Lo sport può offrire sollievo, una via di fuga dalle preoccupazioni quotidiane, un senso di sicurezza, un momento di divertimento. Può dare alle persone la possibilità di guarire fisicamente e mentalmente e di tornare a far parte di una comunità”.
Per la prima volta, la squadra olimpica dei rifugiati gareggerà sotto un proprio emblema, un simbolo unificante che unisce atleti diversi e conferisce alla squadra un’identità unica. Al centro dell’emblema c’è un cuore, che trae origine dal logo della Olympic refugee foundation, per rappresentare il senso di appartenenza che la squadra vuole ispirare e che gli atleti e gli sfollati di tutto il mondo hanno trovato attraverso lo sport.

Il Logo della squadra olimpica rifugiati

Il capo missione per il Refugee olympic team, Masomah Ali Zada, ciclista afghana, ha evidenziato che “questo emblema ci unisce tutti. Siamo tutti uniti dalla nostra esperienza, anche se tutti diversi, abbiamo tutti dovuto fare un viaggio per arrivare dove siamo. Gli atleti non rappresentano un paese specifico, rappresentano il Refugee olympic team: avere il nostro emblema crea un senso di appartenenza e ci dà il potere di rappresentare anche la popolazione di oltre 100 milioni di persone che condividono questa stessa esperienza. Non vedo l’ora di indossarlo con orgoglio!”.

Masomah Ali Zada è anche lei una rifugiata, accolta dalla Francia dopo la fuga dall’Afghanistan nel 2016, minacciata di morte dal regime talebano per la sua attività sportiva, ed ha fatto parte della squadra olimpica dei rifugiati ai XXXII Giochi Olimpici di Tokyo 2020. Durante la cerimonia ufficiale di presentazione della squadra ha dato il benvenuto agli atleti: “Tutti voi avevate un sogno e oggi il vostro sogno di competere ai Giochi olimpici è più vicino che mai. Con tutte le sfide che avete affrontato, ora avete la possibilità di ispirare una nuova generazione, rappresentare qualcosa di più grande di voi stessi e mostrare al mondo di cosa sono capaci i rifugiati”. La squadra olimpica degli atleti rifugiati è un mosaico di nazionalità, culture, fedi, e drammi umani: ogni atleta proviene da angoli diversi del mondo, ed è portatore di una propria storia di sofferenza e rinascita attraverso lo sport, come ì i 100 milioni di rifugiati che rappresentano, legati dagli orrori della guerra, della fame, dell’oppressione fisica e culturale.

L’Olympic refugee foundation (Orf) è stata istituita nel 2017 per dare seguito a questo impegno. La Fondazione funziona al posto di un tradizionale Comitato olimpico nazionale, gestendo i titolari di borse di studio per atleti rifugiati che comporranno, in questo caso, la squadra olimpica per i rifugiati del Cio per Parigi 2024. L’Orf ha come target quello di costruire un movimento internazionale in cui le persone sfollate possano godere dei benefici dello sport, ovunque si trovino, e attraverso il quale lo sport possa essere adottato a tutti i livelli come strumento di supporto per i rifugiati. La Fondazione è nata dopo i Giochi di Rio 2016, visto il grande successo mediatico che la squadra dei rifugiati ebbe in quella occasione, ben superiore ai comunque dignitosissimi risultati ottenuti sui campi di gara. Dal 2017, anno di fondazione, la Orf ha permesso a quasi 400.000 giovani di accedere allo sport sicuro nei luoghi di residenza da profughi.

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