COME SI DIVENTA DITTATORE?
Te lo spiega Kais Saied |
Non si può certo contestare a Kais Saied di non aver lasciato traccia del suo passaggio in Tunisia. Giurista, docente di diritto costituzionale, 66 anni, candidato indipendente nel 2019, è stato eletto al secondo turno presidente della Repubblica di Tunisia con il 72,7% dei voti, affermandosi come specchiato uomo di legge che doveva fare pulizia in un sistema politico corrotto.
Nel 2021, complice la pandemia, si è autoassegnato pieni poteri costituzionali, ha licenziato il primo ministro e congelato l’attività del Parlamento, che ha poi sciolto nel marzo 2022. Stesso anno in cui è stata adottata la nuova Costituzione, approvata tramite referendum, per una Tunisia con un forte potere esecutivo e l’Islam come fonte del diritto e obiettivo dello Stato. Da allora ha governato per decreto. La nuova legge elettorale ha escluso i partiti politici, accettando solo candidati indipendenti. Ha licenziato unilateralmente i magistrati dopo aver sciolto il Consiglio giudiziario supremo. Ja esteso il suo controllo sull’Alta autorità indipendente per le elezioni, concedendosi il potere di nominare e licenziare i suoi membri.
Venerdì l’annuncio, ampiamente atteso, della candidatura per un secondo mandato presidenziale in vista delle elezioni del 6 ottobre. Saied ci sarà, molti dei suoi potenziali oppositori no, perché per una ragione o per l’altra sono finiti in carcere. Due dei dieci candidati presidenziali sono attualmente dietro le sbarre, quattro sono sotto processo, tra cui Rashid Gannouchi- leader del principale partito di opposizione Ennahda, rientrato in patria dopo oltre 20 anni di esilio a Londra solo a seguito del crollo del regime di Ben Ali, per effetto della primavera araba, nel 2011 – che è stato imprigionato l’anno scorso con l’accusa di “cospirazione contro lo Stato” e rimarrà in prigione per almeno altri tre anni. Come Lotfi Mraihi, presidente dell’Unione popolare repubblicana e candidato alla presidenza, condannato venerdì scorso per compravendita di voti a otto mesi di prigione e bandito a vita dalle competizioni elettorali. È all’ordine del giorno anche l’arresto di critici e giornalisti.
Nel video in cui annuncia la candidatura, Saied dice di sentire di dover rispondere “al sacro richiamo della patria”. Parla da Borj el-Kadhra, profondo sud del Paese, “simbolo di forza e di orgoglio, per ricordare che la Tunisia è una nazione unita, dall’estremo nord all’estremo sud, e rimarrà unita. In questa occasione, invito tutti coloro che si preparano a sostenere i candidati a fare attenzione a ogni tipo di inganno. Alcuni sono stati smascherati e altri lo saranno presto. Invito anche a non accettare un millesimo da nessuno, invito anche a non personificare più il potere. Siamo tutti di passaggio e resterà solo la Tunisia”.
La sua ascesa politica è stata trainata dalla sua fama di giurista onesto e accompagnata da una solida piattaforma anti-corruzione. I metodi usati, una volta arrivato al potere, hanno però di fatto portato alla concentrazione del potere nelle soli mani del presidente, smantellando gli altri poteri, annullando oltre un decennio di progressi, certamente stentati, nella costruzione di istituzioni democratiche. Per effetto di questo, Freedom House ha declassato la Tunisia da nazione “libera” a “parzialmente libera”. “Questi arresti sono particolarmente preoccupanti in vista delle imminenti elezioni presidenziali”, ha affermato Amnesty, chiedendo il rispetto dei diritti umani. L’organismo di controllo tunisino I Watch ha denunciato “una metodica assenza di trasparenza” per le elezioni nel paese nordafricano.
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Le batterie a ioni di litio sono uno dei componenti fondamentali dell’auto elettrica, influiscono sull’autonomia e sulla velocità di ricarica del veicolo. La domanda mondiale di litio è prevista con incrementi da quattro a sei volte l’attuale nei prossimi dieci anni, ma le riserve sono limitate in termini quantitativi. I dati Aspenia di fine 2023 indicano che la disponibilità mondiale di litio è pari a 97 milioni di tonnellate di risorse identificate e a 26 milioni di tonnellate di riserve, ovvero la quantità economicamente estraibile e producibile. Quasi la metà è localizzata in Cile e Argentina, mentre la Bolivia, pur possedendo le risorse più vaste del pianeta, detiene riserve per un valore economico nullo. A seguire l’Australia (24%), la Cina (7,7%) e gli Stati Uniti (3,8%). L’Europa, in questo contesto, è relegata allo zero virgola. E però l’industria automobilistica europea sta investendo molto nella transizione verso l’auto elettrica, in vista del divieto di vendita dei veicoli a combustione nell’Ue a partire dal 2035. La Germania, in quanto maggior produttore europeo di auto, ma in generale tutta l’Ue, ha un enorme interesse nelle forniture di litio, per ridurre la dipendenza dalla Cina. Da pochi giorni in Serbia si è sbloccata una controversia particolarmente intricata tra il governo di Belgrado e la multinazionale anglo-australiana Rio Tinto sulla licenza per lo sfruttamento della più grande miniera di litio d’Europa.
A pochi giorni dall’annuncio, l’Ue – Germania in testa – si presenta in Serbia dal controverso Aleksandar Vucic: “L’Ue ha bisogno del litio e noi vogliamo rafforzare i nostri legami con l’Ue” ha detto il presidente serbo. L’Europa si tura il naso davanti al leader serbo, sempre più controverso perché abilissimo nel giocare su più tavoli – ora con Bruxelles ora con Mosca ora con Pechino – ma anche per la torsione autoritaria del suo governo, per le accuse di aver truccato le elezioni, per la repressione dei media indipendenti, per le minacce di espansione territoriale agli stati confinanti nell’ambito del rilanciato progetto pan-serbo. La Serbia infatti potrà dare a Mercedes-Benz, Volkswagen e Stellantis l’opportunità di acquistare il litio per le batterie delle auto, dando priorità ai produttori europei rispetto a quelli cinesi, come ha detto Vucic in un’intervista concessa al quotidiano tedesco Handelsblatt alla vigilia della visita del cancelliere Olaf Scholz.
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E così, in appena quattro mesi, Evan Gershkovich è passato dalla sua vita di apprezzato reporter (negli Usa, e non solo) a quella di pericolosa spia (in Russia) che deve marcire in una colonia penale, in regime di massima sicurezza, per i prossimi 16 anni.
L’esito più temuto era anche il più scontato: il Tribunale russo ha emesso la sentenza al termine di un processo condotto in tempi fulminei e a porte chiuse. Il capo d’imputazione non è mai stato argomentato né pubblicamente dimostrato dal momento che, spiega il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov, “le accuse di spionaggio sono una cosa molta delicata”. Si è però detto da più parti che il verdetto del giornalista americano possa aprire la strada a uno scambio di prigionieri fra gli Stati Uniti e la Federazione Russa, visto che quest’ultima accetta questo tipo di accordi solo su persone condannate. Il Cremlino ha precisato che tutto questo avverrà nel massimo riserbo – “è un argomento che ama il silenzio” ha detto Peskov. Ieri Joe Biden ha alzato la voce, dicendo che Gershkovich è “finito nel mirino del governo russo solo perché è un giornalista e un americano. Stiamo spingendo per il rilascio di Evan e continueremo a farlo”. A sua volta Donald Trump ha preconizzato che Gershkovich “sarà rilasciato prima che io prenda ufficialmente l’incarico, dopo che avrò vinto le elezioni il 5 novembre” perché Vladimir Putin lo farà “per me e per nessun altro”.
Malgrado le relazioni fra Mosca e Washington siano quanto mai tese, i paesi hanno negoziato uno scambio a fine 2022 che ha riportato in America la star della Wnba Brittney Griner, circa quattro mesi dopo la condanna in Russia a 9 anni e mezzo per possesso di stupefacenti. Percorso inverso invece per il trafficante d’armi Viktor Bout, detenuto per 15 anni prima in Thailandia e poi negli Usa, conosciuto come “il postino” o “il mercante di morte”, ispiratore di un film “Lord of War” con Nicolas Cage e oggi deputato nel parlamento regionale dell’oblast di Ul’janovsk, sulle rive del Volga. Qualche mese prima avevano già scambiato il veterano dei marines Trevor Reed, che stava scontando nove anni in un carcere russo per aggressione a un agente di polizia, con il pilota russo Konstantin Yaroshenko, che a sua volta stava scontando 20 anni per aver contrabbando di cocaina.
Per un nuovo accordo bisogna allora guardare a chi siano gli americani detenuti in Russia e i russi detenuti all’estero, chi in altre parole le diplomazie di Washington e Mosca potrebbero mettere sul tavolo.
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Ci sono voluti 24 giorni per la resa di Joe Biden all’evidenza dei fatti, con il ritiro dalla corsa per un secondo mandato alla Casa Bianca. Ventiquattro giorni dal dibattito televisivo che ha mostrato al mondo tutta la fragilità dei suoi 81 anni e ha definitivamente cambiato il modo in cui lo guardavano il partito, i finanziatori, gli elettori. Da quel momento non c’è stato un solo giorno in cui Biden è riuscito a distogliere l’attenzione dal problema della sua età e del suo stato di salute. Perfino il giorno del fallito attentato a Donald Trump, che si rialzava e mostrava il pugno alla folla urlando “fight, fight, fight”, la tempra del tycoon veniva messa a confronto alle difficoltà del presidente. Biden ha provato a mostrarsi più tonico, già nel primo comizio in North Carolina, dopo la pessima performance televisiva, oppure alla conferenza stampa dopo il vertice Nato. Ha fatto leva sulla sua saggezza – “Non mi candiderei di nuovo se non credessi con tutto il cuore e l’anima che posso fare questo lavoro” -, sulla voglia di riscatto – “Quando si viene buttati giù, ci si rialza e si combatte” – sull’esperienza – “Sono la persona più qualificata per la presidenza” – sul merito – “Novanta minuti non cancellano tre e anni e mezzo” -, e ha mosso giustificazioni – “Ero quasi addormentato, colpa dei troppi viaggi” – e ha rassicurato sulla sua capacità di servire l’America per altri quattro anni, sempre con un unico messaggio: resto in corsa, per salvare la democrazia da Donald Trump.
Fino a ieri sera, trapela dal suo staff, il presidente era ancora determinato a proseguire. La resa è arrivata alle 19:45 in Italia: “Credo che sia nel miglior interesse del mio partito e del Paese ritirami e concentrarmi solamente sui compiti da presidente per il resto del mandato”. Dicevamo, l’evidenza dei fatti. In primo luogo, il Partito democratico: trentasei parlamentari che, pubblicamente, hanno chiesto che si facesse da parte. Per non parlare di chi al Congresso non siede, come George Clooney che era il volto della sua raccolta fondi, oppure come Nancy Pelosi e Barack Obama, che dietro ai ripetuti inviti a riflettere spingevano platealmente per il suo ritiro. In secondo luogo, i donatori: nel secondo trimestre (marzo-giugno) Trump aveva effettuato per la prima volta il sorpasso, raccogliendo 100 milioni di dollari in più di Biden, ma i dati di luglio, ancora provvisori, stavano aggravando la situazione, con molti finanziatori dem che annunciavano di voler congelare o interrompere il flusso di denaro per spingere il vecchio Joe a tirare le conclusioni. In terzo luogo, gli elettori: i sondaggi mostravano un arretramento netto di Joe Biden nei confronti di Donald Trump in tutti gli Stati chiave, con effetti anche sui candidati democratici al Congresso. Secondo l’ultima rilevazione Abc-Ipsos per 6 americani su 10 doveva lasciare.
Joe Biden lascia con una lettera in cui consegna quattro messaggi. Difende i progressi economici compiuti durante il suo mandato alla Casa Bianca. Conferma il suo impegno alla presidenza “fino alla fine del mandato”. Offre il suo “pieno sostegno e l’endorsement affinché Kamala Harris sia il candidato del nostro partito”. Lancia infine un appello alla compattezza del fronte democratico, “è ora di unirsi e di battere Trump”.
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Il leader della protesta studentesca in Bangladesh lunedì ha annunciato la sospensione per 48 ore delle manifestazioni contro il sistema delle quote nelle assunzioni della Pubblica Amministrazione. Nahid Islam ha chiesto che “durante questo periodo il governo ritiri il coprifuoco, ripristini Internet e smetta di prendere di mira i manifestanti”.
È gravissimo il bilancio di due settimane di proteste in Bangladesh, iniziate in modo pacifico e poi degenerate in violenza. Da martedì 16 luglio, la situazione è fuori controllo: i manifestanti, molti dei quali studenti, da giorni sfilavano per le strade, bloccando strade e ferrovie. Poi sono venuti a contatto con l’ala studentesca del partito al governo Awami League e con le forze dell’ordine: si contano almeno 163 morti in tutto il Bangladesh, con diverse centinaia di feriti e almeno 500 studenti arrestati per violenze.
Il governo guidato da Sheikh Hasina ha esteso il coprifuoco a livello nazionale, ha chiuso scuole e università a oltranza, ha interrotto internet. Si può uscire solo tra le 15 e le 17, e solo per sbrigare le commissioni essenziali. Domenica e lunedì sono stati dichiarati come giorni festivi, e solo i servizi di emergenza potranno operare.
Non ha cambiato le cose l’intervento della Corte Suprema che ha chiesto di rivedere il sistema delle quote: la pietra del contendere è il 30% riservato ai familiari dei veterani che combatterono nella guerra d’indipendenza del Bangladesh nel 1971. Per gli studenti va eliminata, per l’alta corte dovrebbe essere ridotto al 5%, per il governo invece non è negoziabile. La premier Sheikh Hasina ha definito i manifestanti “Razakar”, un termine infamante che si riferisce a coloro che tradirono il Bangladesh nel 1971 collaborando col Pakistan.
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