Uno sguardo oltre confine
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Newsletter del 16 LUGLIO 2024
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SOTTO OSSERVAZIONE ATLANTICA
Il Canada dal braccino corto non è un’isola
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Al vertice della Nato di Washington, uno degli osservati speciali era il Canada di Justin Trudeau, per i ritardi nella spesa nazionale per la difesa. Nel suo intervento il primo ministro si è per la prima volta impegnato pubblicamente, affermando che il Canada prevede di raggiungere entro il 2032 il target che viene imposto ai membri dell’Alleanza Atlantica di spendere almeno il 2% del Pil per le spese militari. Gli alleati della Nato in realtà hanno concordato per la prima volta la soglia del 2% per la spesa per la difesa nel 2006 e l’hanno ribadita nel 2014 e nel 2023. Quest’anno, sono 23 gli stati membri (su 32) in regola.
Quello del Canada è un annuncio molto diverso rispetto ad aprile scorso, quando sembra che Trudeau avesse detto agli alleati che “mai” il Canada sarebbe arrivato al 2%. E però sposta molto in là gli impegni atlantici, mantenendo Canada tra i ritardatari della Nato. Tanto più che nel suo intervento il segretario generale dell’Alleanza Atlantica Jens Stoltenberg ha detto chiaramente che, nello scenario mondiale attuale, quel 2% è il punto di partenza, non il tetto dell’impegno dei paesi membri. Trudeau ha difeso il suo paese, contestando l’utilizzo di un “grossolano calcolo matematico” per criticare un alleato che “fa più di quello che ci si aspetterebbe”. I numeri, più o meno grossolani che siano, dicono però che il Canada attualmente spende l’1,34% del Pil per le spese militari: è al settimo posto su 32 nazioni per quantità di denaro spesa, in valori assoluti, mentre è in coda alla classifica nel rapporto fra spesa e Pil, in cui fanno peggio solo Belgio, Lussemburgo, Slovenia, Spagna e Turchia.
Gli Stati Uniti, ad esempio, sono vicini al 3,5% del Pil e potrebbe ridursi di molto la tolleranza nei confronti dei ritardatari nel caso di vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali: proprio nel corso del summit atlantico il tycoon aveva ribadito sul suo social che c’è troppa sproporzione nell’esborso dentro la Nato, “gli Usa sono quelli che stanno pagando di più per aiutare l’Ucraina”: l’Europa dovrebbe mandare a Kiev 100 miliardi di dollari per “pareggiare” il conto. Molti canadesi ricordano ancora un astioso battibecco in un vertice Nato del 2019 tra l’allora presidente Donald Trump e Justin Trudeau, quando il primo chiese al secondo con tono beffardo: “Dove ti trovi? Qual è il tuo numero?”. Ma non è soo Trump a chiedere al Canada e agli altri di mettersi in regola. Già a maggio scorso una lettera era stata recapitata a Justin Trudeau da 23 senatori bipartisan degli Stati Uniti, che esortavano il Canada a elaborare immediatamente un piano per aumentare la spesa. Particolarmente duro il leader repubblicano alla Camera Mike Johnson secondo cui è “vergognoso” il comportamento del Canada che “cavalca l’onda dell’America”, in altre parole se ne approfitta delle spalle coperte dal vicino. Il leader repubblicano del Senato Mitch McConnell ha scritto: “È tempo che il nostro alleato del Nord investa seriamente”.
L’anno scorso il responsabile del bilancio parlamentare, Yves Giroux, ha stimato che il Canada avrebbe dovuto spendere altri 75,3 miliardi di dollari canadesi (57 miliardi di dollari) prima della fine del 2027 per raggiungere l’obiettivo del 2%. All’ultimo summit Trudeau ha detto che dal 2015 il Canada ha aggiunto 175 miliardi di dollari canadesi alla spesa per la difesa e che prevede di raggiungere il target Nato arrivando all’1,76% entro il 2030 e al 2% entro il 2032. Il principale partito di opposizione, il partito conservatore, ha affermato che il piano di Trudeau è poco serio, è solo un tentativo di salvare la faccia al summit atlantico, ma nell’aggiornamento della politica di difesa che risale a tre mesi fa non si fa alcuna menzione del percorso di avvicinamento al 2%. La situazione politica in Canada si sta facendo sempre più tesa, con l’approssimarsi dell’appuntamento elettorale di ottobre 2025 e con i sondaggi che mostrano i liberali di Trudeau in netto ritardo rispetto ai conservatori.
Nella storia recente il Canada si è distinto per lo straordinario contributo dato alle alleanze internazionali. Nella Prima guerra mondiale inviò 630mila soldati in Europa (su una popolazione nazionale inferiore a 8 milioni) e risultò determinante in alcune battaglie chiave, con un bilancio di perdite soltanto stimato in 67mila morti e 170mila feriti. Nella Seconda guerra mondiale il Canada inviò un milione di persone (su una popolazione nazionale di 11 milioni) a combattere in Europa e in Asia. Il Canada ha giocato un ruolo in altri importanti conflitti, dalla guerra di Corea per tutta la guerra fredda fino alla missione post 11 settembre in Afghanistan. Le forze canadesi sono attualmente coinvolte in importanti missioni della Nato, come l’operazione Reassurance in Lettonia, l’operazione Unifer in Ucraina, il pattugliamento nello Stretto di Taiwan e nel Mar Cinese Meridionale, l’Operazione Prosperity Guardian nel Mar Rosso, e la missione di supporto per la sicurezza di Haiti.
Gli analisti indicano tre cause della lentezza canadese nel mettersi in regola. In primo luogo, i canadesi sono negoziatori per natura, alla ricerca del massimo guadagno al minimo costo. In secondo luogo, i politici spesso mancano di credibilità sulle questioni di sicurezza nazionale, vengono spesso additati di subalternità rispetto all’America. In terzo luogo, Evan Solomon di Eurasia Group parla di un “insularismo” canadese, quel falso senso di sicurezza dei confini – tre oceani e gli Stati Uniti d’America – e di distanza dai conflitti che porta alla riluttanza a spendere per la difesa nazionale.
Nel nuovo mondo però, l’insularismo del Canada sprofonda nell’Artico, davanti alla vicinanza di Russia e Cina. Il riscaldamento globale sta accelerando l’apertura della rotta marittima dell’Artico, rendendo il Polo Nord una ragione strategica e contendibile, con Mosca e Pechino decisi a prenderne il controllo. Ragion per cui il Canada intende acquistare 12 sottomarini a propulsione in grado di operare tra i ghiacci dell’Artico per migliorare la sicurezza regionale. “Siamo il paese con la costa più lunga al mondo e abbiamo bisogno di una nuova flotta di sottomarini” ha detto il ministro della Difesa canadese Bill Blair a Washington, aggiungendo che gli incontri con i produttori sono stati avviati e in autunno si potrà procedere con l’acquisizione. “Il Canada deve poter rilevare, tracciare, scoraggiare e, se necessario, abbattere gli avversari in tutti e tre gli oceani canadesi”. Sempre per l’Artico, Canada, Usa e Finlandia hanno annunciato un accordo sulla costruzione di rompighiaccio polari. Banalmente, gli Usa hanno 2 rompighiaccio ormai a fine vita, la Finlandia ne possiede 12 e il Canada 9, mentre la Russia ne detiene 36. Sempre a Washington, Trudeau ha annunciato una lettera di intenti con Germania e Norvegia per “stabilire una partnership strategica volta a rafforzare la cooperazione per la sicurezza marittima nel Nord Atlantico a sostegno della deterrenza e della difesa della Nato”. In altre parole, la guerra di domani potrebbe scoppiare vicino casa e il Canada non può permettersi di farsi trovare scoperta.
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L’Ucraina si ritrova in costante deficit di uomini, oltre che di mezzi, rispetto alla Federazione russa e tutte le soluzioni sono benvenute per colmare il gap. Un aiuto potrebbe presto arrivare dai connazionali all’estero. Sono “migliaia” – spiega il ministro degli Esteri polacco Radoslaw Sikorski in occasione del Public Forum della Nato a Washington – i volontari ucraini che hanno già firmato per entrare in un’unità militare e tornare a combattere in patria, “se tutti i paesi europei lo facessero, l’Ucraina avrebbe diverse brigate”.
L’iniziativa della Polonia è stata concordata nel patto sulla sicurezza siglato in occasione del bilaterale fra Donald Tusk e Volodymyr Zelensky, con l’annuncio della formazione di un’unità militare interamente volontaria, addestrata ed equipaggiata da Varsavia per il combattimento in Ucraina. Sikorski riferisce di una grande risposta da parte degli ucraini che vivono in Polonia che vogliono aiutare, purché siano messi nelle condizioni di farlo. Molti sono arrivati in Polonia a seguito dell’invasione russa del febbraio 2022, nel numero più alto fra i paesi europei. “Abbiamo fino a un milione di ucraini di entrambi i sessi, e diverse migliaia di loro si sono già registrati per la leva”, ha detto Sikorski.
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IN AMERICA MUNIZIONI NEI DISTRIBUTORI AUTOMATICI
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Una bevanda gassata, un gallone di latte o una scatola di munizioni, con la stessa facilità. L’ultima frontiera varcata in America sono i distributori automatici per la vendita di proiettili, già disponibili in Alabama, Oklahoma e Texas, presto anche in Colorado. L’azienda che ha sfondato questo ennesimo muro al commercio di armi negli Stati Uniti si chiama American Rounds, che rassicura sui controlli perché lo scanner di identificazione e il software di riconoscimento facciale consentono in modo sicuro di verificare l’età dell’acquirente, prevenendo negligenze nei controlli dei commercianti. “Siamo molto pro-Secondo Emendamento, ma siamo anche a favore del possesso responsabile delle armi” ha detto il Ceo Grant Magers.
La legge federale richiede che una persona abbia 18 anni per acquistare munizioni per fucili e carabine e 21 per acquistare munizioni per pistole. I distributori automatici richiedono che un acquirente abbia almeno 21 anni: chiede al cliente di scansionare la propria patente di guida per convalidare l’età, poi una scansione di riconoscimento facciale verifica il documento. I dati dei clienti, assicura l’azienda, non vengono archiviati, condivisi o venduti.
L’innovazione viene giudicata positivamente dalla lobby delle armi, mentre preoccupa chi quotidianamente fa la conta delle sparatorie negli Stati Uniti, come quella che ha portato al ferimento di Donald Trump a Butler, in Pennsylvania, e soprattutto la conta delle vittime della violenza armata, in crescita negli ultimi anni. “In un paese inondato di armi e munizioni, principale causa di morte dei bambini, non abbiamo bisogno di normalizzare ulteriormente la vendita e la promozione di questi prodotti” dice Nick Suplina, vicepresidente di Everytown for Gun Safety, secondo cui le munizioni dovrebbero essere vendute solo da rivenditori autorizzati e gli acquirenti dovrebbero essere soggetti a una verifica dei precedenti.
La sparatoria di Butler ha focalizzato l’attenzione sul fucile AR-15, l’arma più diffusa negli Usa con oltre 40 milioni di pezzi venduti, diventando un simbolo di quella parte d’America che si schiera a favore della libera vendita delle armi. Era perfino sulle cravatte di alcuni parlamentari repubblicani proprio a tutela del diritto degli americani di armarsi. L’AR-15, nata come arma militare, è tra le più usate nelle stragi di massa negli Stati Uniti, sia perché può avere caricatori fino a 100 proiettili, può sparare fino a 60 colpi al minuto, sia perché ha un prezzo abbordabile, circa mille dollari. Per dieci anni, dal 1994 al 2004, venne messo al bando dalla presidenza di Bill Clinton, ma negli ultimi 20 anni le vendite sono decollate e il Congresso ha fatto pochissimo per porre un freno al commercio di armi.
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IN SVIZZERA UNA CAPSULA PER LA MORTE FAI DA TE
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A pochi giorni dal primo utilizzo in Svizzera arriva lo stop a “Sarco”, la capsula per l’eutanasia sviluppata per “integrare le nuove tecnologie per rendere la morte elettiva pacifica un diritto di tutti gli adulti razionali”. L’inventore si chiama Philip Nitschke, ex medico per anni in lite con l’Australian Medical Board per essere stato il primo ad aiutare un uomo a morire, nel 1996. Ha fondato l’azienda australiana Exit International per creare un macchinario che prendesse il suo posto e si è guadagnato nomignoli come “Dr. Morte” o “Elon Musk del suicidio assistito” per il suo lungo lavoro per “demedicalizzare la morte” attraverso la tecnologia, culminato in Sarco che è stata definita “la Tesla dell’eutanasia”.
Nitschke spiega che “la persona che desidera mettere fine alla propria vita non dovrà fare altro che entrare nella capsula e sdraiarsi sul comodo lettino. Dopodiché, dovrà rispondere a una serie di domande – Chi sei? Dove sei? Sai cosa accadrà quando avrai premuto quel pulsante? – e poi potrà premere il pulsante all’interno del macchinario, attivando il meccanismo nei tempi che preferisce”. La capsula è montata su un supporto che sprigiona azoto liquido al suo interno, facendo calare rapidamente i livelli di ossigeno dal 21% all’1% in circa 30 secondi. L’occupante in poco tempo sviene e in pochi minuti muore per mancanza di ossigeno.
I procuratori del cantone elvetico di Schaffhausen hanno sollevato preoccupazioni legali ed etiche, e avvertito Nitschke che in caso di utilizzo di Sarco dovrà affrontare gravi conseguenze per aver aiutato, favorito e indotto il suicidio. C’è chi contesta il voler rendere “glamour” il suicidio, chi teme che possa attirare individui vulnerabili che ricorrerebbero alla morte senza considerare le gravi implicazioni. Dal 1942 la Svizzera consente il suicidio assistito, ma la legge stabilisce che gli individui che cercano di porre fino alla propria vita devono essere sani di mente e la loro decisione non debba essere motivata da ragioni egoistiche. Nitschke punta a sviluppare un algoritmo che consenta di effettuare una autodiagnosi psichiatrica attraverso un computer che solo a quel punto fornirebbe il codice per poi utilizzare Sarco, ottenendo così una completa “demedicalizzazione” del fine vita.
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Il capolavoro è completo. Il piano Ruanda di esternalizzazione delle domande di asilo – partorito con Boris Johnson nel 2021 ma poi nato con Rishi Sunak a Downing Street – che consentiva al governo di Londra di deportare rifugiati a 6.400 km dal proprio territorio, è stato un disastro totale. Non solo non è mai stato applicato. Non solo ha causato conflitti interni, è stato dichiarato illegale dalla Corte Suprema, bollato come crudele e disumano dalle ong e le Nazioni Unite, ha creato fazioni dentro i Tory che hanno rallentato il percorso parlamentare prima e l’attuazione poi. Non solo si è rivelato il grande fallimento politico dei conservatori, un boomerang dello sbandieratissimo slogan “stop the boats” che ha colpito alle urne. Il Piano Ruanda è anche costato al contribuente britannico soldi che probabilmente non rivedrà mai più.
Come parte dell’accordo, la Gran Bretagna avrebbe dovuto dare al Ruando circa mezzo miliardo di sterline di finanziamenti in cambio dell’accoglienza. L’ente indipendente di controllo della spesa pubblica, a inizio marzo, ha riferito che dal 2022 Londra ha versato al Ruanda 240 milioni di sterline (circa 284 milioni di euro). nonostante nessun richiedente asilo fosse stato deportato nella nazione africana. Lunedì da Londra avevano espresso l’auspicio che parte dei soldi potesse essere recuperata. A gennaio il presidente Paul Kagame, dinanzi allo stallo lungo oltre 20 mesi, aveva lasciato aperta una porta a una restituzione parziale. Tuttavia all’atto pratico, un portavoce del governo ha prontamente dichiarato che, in base agli accordi bilaterali, il Ruanda non è tenuto a rimborsare il Regno Unito. “Se vieni e chiedi cooperazione e poi ti ritiri, è una tua decisione. Buona fortuna” ha aggiunto Alain Mukuralinda, vice portavoce del governo.
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