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Attualità

Nel porto di Napoli un container che dondola nell’aria, sollevato da una gru. Un portellone che si apre all’improvviso, per errore. E i cadaveri di cittadini cinesi, pronti a ritornare in patria per essere seppelliti/ Non sono però più pieni di cadaveri. Sono invece pieni zeppi di denaro

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Banche sotterranee di Giuliano Foschini e Antonio Fraschilla

la Repubblica

Nel porto di Napoli un container che dondola nell’aria, sollevato da una gru. Un portellone che si apre all’improvviso, per errore. E i cadaveri di cittadini cinesi, pronti a ritornare in patria per essere seppelliti, che si frantumano al suolo. Roberto Saviano scelse, era il 2006, di cominciare così il racconto di Gomorra, il libro che sconvolse il mondo.

Quasi venti anni dopo quei container sono ancora lì. Al porto di Napoli, come a quello di Ancona, Gioia Tauro, La Spezia, Venezia, Catania. Ma sono anche dove il mare non c’è: a Milano, a Roma, a Firenze, o magari nel Veneto ricco o tra le fabbriche della pianura padana. Non sono però più pieni di cadaveri. Sono invece pieni zeppi di denaro. Un fiume di soldi, miliardi di euro, che ogni anno dall’Italia, di nascosto, corrono verso le banche di stato cinesi che garantiscono impunità a evasori, truffatori. E anche mafiosi.

Secondo i dati della Banca d’Italia dal 2010 sono letteralmente “spariti” dieci miliardi di rimesse ufficiali della comunità cinese italiana verso la Madrepatria, passate da quasi 2 miliardi del 2012 a una manciata di milioni lo scorso anno. I numeri non lasciano spazio a diverse interpretazioni: intermediari cinesi hanno trovato la maniera per far transitare illecitamente il denaro dall’Italia a Pechino. E così decine di indagini delle procure di tutta l’Italia, da Catania a Milano, stanno alzando il velo su una enorme rete guidata da alcuni cinesi che ricicla non solo il nero fatto dalle miriade di imprese siniche in Italia (gli apri e chiudi che non pagano tasse e imposte e importano prodotti evadendo l’Iva e dazi), ma anche soldi delle mafie e dei grandi truffatori ed evasori italianissimi che hanno letteralmente rubato miliardi di euro di crediti fiscali tra superbonus e bonus facciate: sì, una parte dei soldi stanziati dallo Stato italiano per l’edilizia, e che hanno creato una voragine nei conti del bilancio, è finita in Cina.

Repubblica con una inchiesta del marzo 2023 aveva raccontato il sistema della banca “underground” cinese: una rete che emergeva in controluce da alcune inchieste su evasione, ‘ndrangheta, riciclaggio e che opera esattamente come un istituto di credito, garantendo pagamenti all’estero oppure ripulendo denaro con transazioni vere per finti acquisti di materiale. Ma le ultime indagini, e un dossier riservato che gira nelle procure e che abbiamo potuto leggere, sta facendo emergere il salto di qualità e come la rete, vastissima, non può essere derubricata solo a malavita cinese “occasionale”: dietro c’è qualcosa di più grande che tiene le fila di tutto. Con un’ambizione, su scala europea, più ampia: fare concorrenza sleale alle piccole aziende europee di manifattura e drenare tutto il guadagno di questo sistema per riportarlo in Cina non reinvestendo un euro nell’economica europea.

L’Italia sembra aver un ruolo cruciale in tutto questo. Giovanni Melillo, procuratore nazionale antimafia, prima da procuratore di Napoli e poi appena arrivato sulla poltrona che fu di Giovanni Falcone in via Arenula, ha sempre tenuto i riflettori accesi sul «fei chien». «Letteralmente – spiega a Repubblica – significa “denaro volante” ed è una modalità molto diffusa di underground banking. Attorno a questo metodo si realizza un circuito parallelo di trasferimento all’estero di grandi quantità di denaro, per conto di persone che non vogliono apparire né come ordinanti né come destinatari di questi flussi di denaro. Il metodo – continua Melillo – è assai utilizzato sia da imprenditori che vogliono ripulire e trasferire all’estero il denaro fraudolentemente sottratto al fisco sia da grandi organizzazioni criminali, interessate a trasferire clandestinamente all’estero il denaro necessario al finanziamento di traffici di stupefacente o a reinvestirne i proventi. Il fei chien consente molte diverse applicazioni, che rendono evidente anche la connessione profonda che in molti casi esiste fra frodi fiscali e interessi mafiosi».

«Le indagini della nostra polizia economico-finanziaria, la guardia di finanza, dimostrano – continua Melillo – come il fei chien sia utilizzato grazie a broker cinesi attivi in varie aree del mondo, i quali ricevono denaro contante e assicurano il trasferimento dello stesso in altre aree del mondo, dietro, naturalmente, il pagamento di commissioni. In pratica, il denaro raggiunge il destinatario dell’operazione senza lasciare traccia. In cambio del denaro, chi dispone il trasferimento riceve un token – spesso è la foto del numero di serie di una banconota scelta a caso – e trasferendo il token consente al destinatario di ritirare il denaro in un altro paese, presentando le proprie credenziali ad un altro broker».

Ma, in partenza, come si crea questa mole enorme di denaro nero nelle mani di alcuni gruppi di cinesi? Il sospetto degli inquirenti coinvolti nelle indagini in corso è che ci sia dietro un sistema replicato ovunque. In primis le aziende cinesi impiegano manodopera composta da connazionali e spesso non rispettano le normative contrattuali. E i prodotti che rivendono nella vastissima rete commerciale sono realizzati in Madrepatria e entrano nel mercato europeo anche facendo frodi sull’Iva: l’Italia su questo fronte è un avamposto, nel 2023 ben oltre un terzo delle indagini della Procura europea sulle frodi Iva negli Stati comunitari ha riguardato l’Italia. Sui 6,6 miliardi di euro di somme sottratte all’erario europeo, ben 5,2 miliardi riguardano l’Italia. Il valore di queste frodi nel nostro Paese è cresciuto del 300 per cento tra il 2022 e il 2023. Alcune indagini sulle frodi sul pagamento dei dazi doganali (altro elemento che consente ai prodotti cinesi di essere venduti a prezzi inferiori) portano poi in Ungheria: il paese guidato da Viktor Orbán è considerato la quinta colonna di Pechino in Europa. A due passi da Budapest sarà inaugurata la città universitaria del Fudan, unica sede estera dell’ateneo che in Cina forma la classe dirigente e burocratica del Paese. Alcune infrastrutture ferroviarie e su strada in Ungheria saranno costruite attraverso accordi con la Cina per migliorare i collegamenti tra l’oriente e l’Europa. E qui insiste l’unico hub fuori Pechino di Huawei, il colosso del 5G. L’Ungheria è il primo Paese per investimenti cinesi in Europa: secondo il rapporto del Rhodium Group e di Merics fino al 2021 l’investimento medio annuo di Pechino in Ungheria è stato di soli 89 milioni. Nel 2022 è salito a 1,5 miliardi di euro e ha raggiunto i 3 miliardi di euro nel 2023.Ma l’ingresso di prodotti senza il pagamento di dazi e imposte avviene anche dai porti europei. Dal 2013 il governo cinese ha investito in 14 porti dell’Ue: possiede quote in quelli di Dunkerque, Le Havre e Nantes e ha il 67 per cento del porto del Pireo, il 35 per cento di Rotterdam, il 25 per cento di Anversa e ha investito in Italia a Vado Ligure e vuole investire a Genova con il colosso di Stato Cosco. Oggi d’altronde il tasso massimo di controlli sulle merci fissato dall’Europa per ragioni di fluidità del traffico è solo del 5 per cento. Altro meccanismo che fa creare una grande quantità di nero è quello dell’elusione di tasse e imposte attraverso il sistema degli «apri e chiudi». Un sistema che si è molto raffinato: in Italia si assiste a decine di aperture di partite Iva da parte di cinesi con il meccanismo del «rappresentante fiscale di soggetto non residente». La denominazione di questi apri e chiudi a volte è soltanto un insieme senza senso di lettere, tanto è la rapidità con la quale si aprono nuove piccole imprese e si chiudono allo stesso tempo. Quelle che chiudono magari hanno presentato anche la dichiarazione dei redditi e rilasciato pure lo scontrino fiscale: così il reato è anche minore, al massimo solo quello di mancato pagamento dell’Iva. Qualche esempio? Un laboratorio cinese del comparto tessile Vicenza tra il 1996 e il 2020 ha aperto e chiuso per ben 16 volte la partita Iva intestata sempre a cinesi che poi scomparivano nel nulla. La Finanza ha scoperto che nel marzo 2023 nell’arco di tre giorni sono state aperte all’Agenzia delle entrate venti partite Iva riconducibili a soggetti cinesi dai nomi che sembrano un elenco di lettere come “shenzenzenenenenee”. Per dare una idea del fenomeno che la Finanza si sta trovando a gestire: il generale Bruno Buratti, ex comandante dell’area Triveneto della Finanza, che negli anni scorsi ha coordinato alcune importanti operazioni sulla movimentazione di denaro in Cina, nell’ultima relazione che ha firmato per il Veneto ha affermato che «tra il 2008 e il 2020 solo nel Nord-Est sono state aperte da cinesi 15 mila partite Iva e il 55 per cento ha dichiarato zero euro, il 20 per cento tra 6 mila e 0 euro di fatturato». E che in Veneto «gli interventi ispettivi nei confronti di ditte individuali cinesi hanno consentito agli inquirenti discoprire un debito tributario pari a 2 miliardi di euro a fronte di un recupero di appena 50 milioni di euro». Un altro elemento di produzione del nero è quello poi dello sfruttamento della prostituzione o di altre attività illecite. Così grandi quantitativi di contante vengono intanto creati. Ma questo denaro non viene reinvestito in qualche modo nel territorio italiano o in Europa. Le indagini in corso stanno facendo emergere un sistema che consente di riportare in Patria questi soldi fornendo servizi anche alle mafie, che devono fare pagamenti ai cartelli della droga di mezzo mondo, oppure agli evasori e truffatori italiani che esattamente come i cinesi hanno grandi quantità di denaro da riciclare. Le procure di mezza Italia hanno messo nel mirino la “Undeground bank of china” raccontata da Repubblica lo scorso marzo. «A dare forza al sistema», spiega ancora il procuratore nazionale Melillo, «è da un lato l’assoluta mancanza di cooperazione internazionale del sistema bancario cinese e, dall’altro lato, sulle grandi masse di denaro contante accumulate, sovente a loro volta frodando il fisco dei paesi di residenza, da imprese cinesi operanti all’estero. A dimostrazione della flessibilità del sistema del fien chien, è ben possibile che denaro originato da traffici di droga, una volta trasferito all’estero, venga poi destinato a finanziare imprese europee – non solo italiane – dedite a valle a sistematiche frodi Iva coperte da vorticosi giri di false fatturazioni. Insomma, il denaro frutto di frode fiscale viene impiegato per gli scopi criminosi di narcotrafficanti, ma anche il denaro di narcotrafficanti può servire al finanziamento di reti di evasione fiscale. Una straordinaria alleanza criminale». Tre grandi indagini sono in corso a Milano, altre tre a Brescia, due a Bologna, due a Firenze, una a Prato, tre a Roma, due a Napoli e una a Catania. Il vero “oro” di questa banca è proprio l’enorme quantità di nero a disposizione. In una indagine della Guardia di finanza di Pordenone sono stati fotografati sacchi di denaro che uscivano da un negozio cinese del centro commerciale padovano cinese. E da questa indagine per la prima volta è emersa l’esistenza di una sorta di banca segreta, che si pensava essere solo un fenomeno locale di pochi riciclatori cinesi del padovano, e invece si è scoperto essere ramificata in tutto il Paese e, come vedremo, anche all’estero. Come dicevamo questo fenomeno viene scoperto per la prima volta dall’ex comandante della Finanza di Pordenone, il colonnello Stefano Commentucci. Le Fiamme nel 2021 gialle stavano seguendo i movimenti di Stefano Cossarini, un imprenditore di Pordenone sospettato di aver messo su una rete per smaltire illecitamente scarti da metallo prodotti dalle fabbrichette di Lombardia e Triveneto, evadendo milioni di euro di Iva e altre imposte. Scrivono i finanzieri nel loro report investigativo che ha fatto scattare l’indagine della Direzione distrettuale antimafia di Trieste: «Stefano Cossarini si reca spesso in corso Stati Uniti a Padova, entra nel negozio ad insegna Pier Monì e ne esce con buste dalle quali si evince il recupero, all’interno del negozio, di qualcosa». La Guardia di finanza da giorni aveva piazzato lì delle telecamere: in quei sacchi c’è del denaro contante. È la chiusura del cerchio. Ma lo schema è complesso: centinaia di aziende della Lombardia, del Veneto e dell’Emilia Romagna per smaltire gli scarti metallici da produzione senza pagare le imposte e senza garantire il controllo dell’origine dei materiali, hanno venduto in nero 150 mila tonnellate di rame, ottone, alluminio e altri metalli a delle società create da tre imprenditori. Quest’ultimi facevano finta poi di acquistare lo stesso quantitativo di materiale da tre società in Repubblica Ceca e in Slovenia, intestate o controllate da loro: la Kovi Trade, la Steel distribution e la Biotekna. In questo modo, con delle carte fasulle si certificava l’origine di questo materiale dall’estero. Ma l’operazione non finisce qui: formalmente le tre società della Slovenia e della Repubblica Ceca ricevevano i bonifici e quindi incassavano soldi veri, circa 150 milioni di euro. A questo punto le tre società estere facevano finta di acquistare a loro volta il materiale ferroso in Cina, facendo quindi ulteriori pagamenti veri accreditati in diversi conti di banche cinesi. Una volta accertatisi del bonifico fatto in Cina, i cinesi restituivano i soldi in contanti agli italiani trattenendo una percentuale per il disturbo. E la scoperta di un grande filone per la Finanza e poi per le procure e per tutte le forze investigative del nostro Paese, che hanno cominciato a vedere, oltre ai reati di mafia droga, evasione, riciclaggio, se dietro c’erano cinesi coinvolti e se c’era del trasferimento di denaro in Cina. Le storie di negozietti cinesi che riciclano e trasferiscono in Cina, offrendo servizi alla malavita, milioni e milioni di euro sono decine. E alcune volte le storie sono davvero incredibili per i numeri in ballo. A Casalecchio, in una anonima sala slot due cinesi, chiamati da tutti Luca e Lisa, in realtà C. J e Y. H, avrebbero curato pagamenti in Colombia per 5 milioni di euro per conto del boss della locride Giuseppe Romeo: un cinese in Colombia ha pagato i cartelli della droga nello stesso momento gli uomini di ’ndrangheta consegnavano il denaro a Luca e Lisa più una provvigione per il servizio reso. Stesso meccanismo è stato scoperto dalla Guardia di finanza, con il comandante del nucleo di polizia economica e finanziaria Francesco Ruis, in un negozietto cinese a due passi dalla stazione Termini a Roma. Qui il servizio era reso a una cellula romana che smistava decine di chili di cocaina nella Capitale in contatto con i clan di ‘ndrangheta e con i narcos colombiani, pagati attraverso i cinesi appunto. Ai cinesi si era rivolto il ghota della mafia italiana. Nella Capitale, accanto al fiduciario calabrese Fortunato Giorgi, di San Luca, che da Filacciano gestiva gli arrivi della cocaina a Roma, nell’indagine è stato coinvolto anche Simone Bumbaca, uomo vicino a Ferruccio Casamonica e legato al narcos albanese Elvis Demce. La somma trasferita in Cina nell’arco di pochi giorni, come documentato dall’inchiesta Oltre 53 milioni di euro. A Milano invece è stato scoperto uno dei tanti casi di centri massaggi cinesi che in realtà erano centri di sfruttamento della prostituzione. Qiang L. secondo la procura era al vertice di un sistema per ripulire il denaro che arrivava proprio da quei «servizi». Era definito il mago delle carte PostePay: scoperte 4.700 operazioni che hanno mosso verso la Cina 1,7 milioni di euro. A San Marino un piccolo commerciante cinese, direttamente o tramite lo schermo di fiduciari dai nomi fantasiosi, come Maiale, Cinghiale e Muflone, da una finanziaria locale ha movimentato 330 milioni. Ma attenzione: San Marino già qualche anno fa era finita al centro di una mega indagine, «Fiume di denaro» che ha scoperto il riciclaggio di 4,5 miliardi dall’Italia verso la Cina. La procura ha sostenuto che il denaro sia stato trasferito illegalmente dall’Italia alla Cina da cinesi residenti principalmente nel distretto di Prato e a Firenze. Più recente l’operazione Eureka a Locri ha scoperto che le ’ndrine acquistavano stupefacente in Colombia, Brasile, Ecuador e Panama e lo portavano in container al porto di Gioia Tauro. I pagamenti avvenivano con operazioni finanziarie gestite da organizzazioni criminali composte da cittadini cinesi. I profitti della commercializzazione dello stupefacente solo tra agosto 2020 a febbraio 2021 sono stati pari a 20 milioni e anche qui, questi soldi, sono stati riciclati con operazioni finanziarie verso il Belgio da cittadini cinesi. Ma anche le truffe sui crediti fiscali del superbonus e del bonus facciate hanno a che fare con la Cina: prelevati i crediti fiscali, i gruppi di commercialisti e imprenditori italiani che hanno fatto truffe miliardarie sui crediti fiscali (basti pensare alle operazioni fatte in Emilia Romagna e in Campania per quasi 4 miliardi di euro truffati con finte ristrutturazioni edilizie) prima di essere indagati si sono rivolti a cinesi per riciclare in fretta il denaro con il sistema delle transazioni verso la Cina e poi il ritorno in contanti. Nel report 2023 di Bankitalia sulla cessione crediti fiscale si legge: «È emersa una significativa correlazione, in termini di importi e tempistica, tra l’incasso dei corrispettivi per le cessioni dei crediti e il trasferimento dei fonti accreditati su rapporti incardinati all’estero, con una netta prevalenza di paesi asiatici (Cina, Hong Kong) e in subordine dell’Est europeo (Slovenia, Bulgaria) anche se questi ultimi, dall’esperienza di analisi maturata dall’Unità, si configurano sovente come mero punto di transitano di somme trasferite nel territorio cinese». Nell’ultimo report, quello del 2024, dell’Unità di informazione finanziaria di Bankitalia appena pubblicato si legge anche che in Cina arriva denaro frutto di truffe ai correntisti: «Sono emersi numerosi casi di truffe a correntisti italiani indotti a trasferire somme su conti esteri per effettuare operazioni di investimento in crypto-assets e attività di trading… nella maggior parte dei casi i fondi venivano dirottati verso conti situati in paesi terzi (in particolare verso la Repubblica Popolare Cinese)».

C’è una domanda di fondo in questa storia: lo Stato cinese può non sapere cosa sta accadendo in Europa e in Italia soprattutto? Può la Repubblica popolare cinese che tutto controlla non sapere dei versamenti miliardari frutto di illecito nei conti delle sue banche? È vero, come tiene a precisare il procuratore Melillo, che «occorre distinguere le comunità cinesi, di regola composte da persone operose e oneste, dalle eterogenee organizzazioni criminali che si sviluppano al loro interno» ma è altrettanto vero che è difficile pensare che Pechino possa non essersi resa conto di quanto sta accadendo. Dalle indagini in corso sono emersi conti correnti di destinazione del denaro in istituti di credito controllati da Pechino: a partire dalla Bank of China, con conti nelle sedi di Xiamen, Quanzhou, Hangzhou e Jinhua, proseguendo con The agricultural bank of China, China city bank, China construction bank corporation, China everbright bank e Industrial and commercial bank of China. A Firenze la Bank of China ha patteggiato una sanzione da 600mila euro nell’ambito dell’inchiesta sul trasferimento dall’Italia alla Cina di 4 miliardi di euro tramite negozi money transfer. Anche altri Paesi europei sono stati scoperti meccanismi di riciclaggio molto simili, un segnale che la rete è europea e non solo italiana. In Francia Bank of China ha accettato di pagare 3,9 milioni di euro per sfuggire all’accusa di «riciclaggio evasione fiscale» lanciata a Parigi. Alcune indagini avviate tra il 2013 e il 2015 avevano fatto emergere un sistema in cui i commercianti contrabbandavano prodotti che poi rivendevano per contanti, il che consentiva loro di evadere parzialmente l’Iva e l’imposta sulle società. Questo denaro veniva poi depositato in conti aziendali prima di finire in conti cinesi aperti presso una filiale della Bank of China nella provincia di Zhejiang. In Spagna, secondo un’altra indagine, i cinesi che avevano bisogno di riportare a casa denaro illecito si rivolgevano a una filiale della Industrial and Commercial Bank of China. Le autorità spagnole hanno dichiarato di aver calcolato un trasferimento di denaro da 1,2 miliardi di euro dalla Spagna alla Cina. Resta la domanda: lo Stato cinese non sa nulla A Firenze una lunga indagine ha alzato il velo sui proventi in nero fatti dalle diverse aziende cinesi in Toscana e nel distretto di Prato del tessile (il pronto moda che lavora per i grandi marchi) e riciclati anche tramite l’uso di criptovalute e poi arrivati tramite carte di credito della China Unionpay, e triangolazioni con exchange europei in Germania e Slovenia e finanziarie alle Seychelles, nei conti correnti di Bank of China, Bank of Taizhou e Bank of Wenzhou. Il procuratore aggiunto Luca Tescaroli ha quindi firmato una rogatoria internazionale chiedendo alla Repubblica popolare cinese di sapere se davvero queste carte e questi conti erano stati emessi e intestati nelle banche di Stato per identificare i titolari che erano sempre schermati. La risposta di Pechino a oggi mai arrivata. Anche la procura di Milano si è mossa per chiedere alle autorità cinesi la tracciabilità di alcuni fondi arrivati nelle loro banche: «Ma è difficile trovare collaborazione e una volta che i bonifici sono arrivati in Cina se ne perdono le tracce», ha detto la pm Alessandra Cerreti. Davvero lo Stato cinese non sa nulla di quello che sta accadendo?

FONTE: Giuliano Foschini e Antonio Fraschilla

(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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