Uno sguardo oltre confine
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Newsletter del 2 LUGLIO 2024
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Sono cinque i messaggi che emergono dalla settimana di sangue per le proteste contro le nuove tasse della legge di bilancio, poi ritirata dal governo: per il popolo keniano, per il presidente William Ruto, per l’Fmi, per gli Usa e per il movimento giovanile.
La prima lezione è un ripasso per il popolo del Kenya di una massima universalmente conosciuta, attribuita a Benjamin Franklin: di sicuro, nella vita, ci sono solo le tasse e la morte. Però dal basso, un movimento giovanile di protesta si è organizzato, è sceso in strada, all’inizio pacificamente, ha fatto scintille con le forze di sicurezza, ha subito violenze e ha reagito, ha tentato l’assalto al Parlamento di Nairobi, fino a costringere il presidente keniano William Ruto a ritirare la legge di bilancio con le tasse anche sui beni di prima necessità, ritenute odiose e punitive dalla popolazione già alle prese con un costo della vita sempre più insostenibile, specie perché imposte a fronte di nuove spese facili e stravaganti da parte della classe dirigente.
E però, se di sicuro ci sono solo le tasse e la morte, ecco che queste imposizioni fiscali, uscite dalla porta, rischiano presto di rientrare dalla finestra, anche perché il Kenya deve far quadrare i conti pubblici, tenuto sotto stretta osservazione dal Fondo Monetario Internazionale. E però se di sicuro ci sono solo le tasse e la morte, il popolo keniano fa la conta delle vittime di questi giorni turbolenti, almeno 30 vittime, un bilancio fornito da Human Rights Watch sulla base di testimonianze, registri ospedalieri e mortuari, che appare molto conservativo. Quello di martedì 25 luglio è un giorno che entra nella storia del Kenya: per la rivolta giovanile e per la repressione governativa. È stato il culmine delle proteste, a cui le forze di sicurezza hanno reagito con violenze, rapimenti, arresti, perfino fucilazioni. Proteste che sono state definite “un tradimento”, dal presidente Ruto, che inizialmente ha parlato di “linea dura” contro i manifestanti, poi in un secondo discorso, ha ceduto alle pressioni della piazza, annunciando il ritiro della legge di bilancio. Una vittoria della protesta, pagata con un bilancio pesante in termini di vittime. Una disfatta della leadership del presidente nella fragile democrazia keniana.
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La presidente peruviana Dina Boluarte arriva in Cina con cinque ministri e con una decisione che Pechino aspettava da qualche mese, che sblocca definitivamente il progetto del mega-porto di Chancay, già in avanzato stato di realizzazione, con l’inaugurazione fissata a novembre, eppure minacciata da una controversia fra i due paesi. Si tratta di un investimento strategico che nella prima fase ammonta a 1,3 miliardi di dollari, per arrivare a movimentare un milione di container all’anno, mentre il piano completo, che comprende ben 15 terminal, potrebbe superare i 3,5 miliardi di dollari, ma sarà modulato in funzione della crescita di domanda e offerta. Una decisione che, soprattutto, evita al Perù di imbarcarsi in una costosa battaglia legale con il suo primo partner commerciale mondiale.
Nell’agenda del capo di Stato peruviano in Cina, oltre all’inaugurazione di una mostra sul popolo Inca nel Museo Nashan di Shenzhen, c’è la firma di un Memorandum d’intesa per la formazione di 20.000 esperti digitali, l’incontro con alcune multinazionali – Huawei e Byd – ma soprattutto il bilaterale con il presidente Xi Jinping: in cima ai dossier c’è il progetto Chancay, il cui principale azionista è la società statale cinese Cosco Shipping Ports, con sede a Hong Kong, pietra miliare dell’ambiziosa Belt and Road Initiative.
La Cina investe massicciamente nei porti di tutto il mondo: secondo una ricerca del Council on Foreign Relations, le aziende cinesi stanno investendo in 92 porti attivi al di fuori della Cina, fra cui Amburgo, Atene, Rotterdam. Anche il Perù sta puntando forte sulle proprie infrastrutture portuali.
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FUGA VIA MARE DALLO STATO EREMITA
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Nei primi giorni della pandemia, Kim Jong-un ha blindato del tutto i confini della Corea del Nord e da allora, in questi anni, quasi più nessuno è riuscito a fuggire da quello che viene chiamato lo Stato eremita dell’Estremo Oriente. Il Washington Post racconta la storia di Kang Gyu-rin che con la madre, la zia e un amico di famiglia è riuscito nell’impresa, a ottobre scorso, di imbarcarsi in un barchino di legno e di sfidare la morte nella traversata via mare verso la Corea del Sud. “Ero pronta a morire, non avevo paura” afferma Kang, 23 anni, insieme a molti racconti che offrono uno squarcio inedito su come è cambiata la Corea del Nord governata dal regime totalitario di Kim Jong-un negli ultimi quattro anni.
La rotta via terra attraverso la Cina comporta rischi enormi, tra cui il rimpatrio in Corea del Nord, con punizioni estreme in caso di cattura. La rotta marittima è forse ancora più rischiosa, per la presenza di pattuglie sulla costa e in mare, oltre che per le condizioni meteorologiche anche estreme per imbarcazioni inadeguate al viaggio. Kang e sua madre avevano sentito di famiglie fuggite sulle barche, soltanto al loro arrivo in Corea del Sud avrebbero appreso che nessuna di esse era sopravvissuta.
Kang viveva nella provincia di South Hamgyong, sulla costa est. Classe media, sebbene lontani dal confine con la Cina, dove avvenivano quasi tutti i commerci. Ciò non aveva molta importanza prima della pandemia perché l’economia di mercato aveva preso piede in tutta la Corea del Nord, dopo tutto è cambiato in peggio. “Raccontiamo di quanto la vita fosse dura nel 2019, ma se ci guardiamo indietro, quelli erano gli anni buoni. Sarà difficile tornare a vivere come allora”. Prima della pandemia arrivavano prodotti dalla Cina, poi sono scomparsi o sono diventati impossibili da comprare. “Anche un ago da cucito è diventato 10 volte più caro, era un prodotto cinese. Ho capito quanto poco produca davvero il mio paese” dice Kang, che fu costretta ad abbandonare l’università per lavorare, comprò la barca con l’aiuto di sua madre (che aveva da parte dei risparmi, un lusso in Corea del Nord) per avviare una piccola attività di pesca. Presto si dimostrò che l’attività non era sostenibile, per il costo del gasolio, per le riparazioni continue dell’imbarcazione, per la paga dei lavoratori anche quando non c’era pesce da pescare. Kang ha tenuto dei quaderni di contabilità, che mostra al Post per dimostrare quanto sostiene. Però sapeva che la barca poteva darle una via di fuga: ha iniziato a pianificarla in primavera, ha deciso di partire il 22 ottobre 2023.
A bordo avevano portato acqua, noodles secchi, pane, riso e sonniferi: questi ultimi li avrebbero presi in caso di cattura, meglio una morte nel sonno di un campo di prigionia o di un’esecuzione. Kang racconta di aver pensato di doverle prendere quando ha avvistato in lontananza una pattuglia nordcoreana, mentre tentavano l’attraversamento del confine marittimo. Non è chiaro perché alla fine non li abbia intercettati. Alle 7 del mattino del 24 ottobre Lim Jae-gil, un pescatore di pesci palla, individuò la barca di Kang. Chiamò le autorità. Uno dei nordcoreani chiese: “Dove siamo?” “Sokcho, nella provincia di Gangwon”, rispose Lim. “Sei della Corea del Nord?” I nordcoreani annuirono. “Ben fatto”, disse Lim. I quattro salirono a bordo della barca di Lim e attesero la guardia costiera sudcoreana. Lim offrì sigarette e acqua. I nordcoreani avevano portato con sé una grande quantità di entrambi, ma accettarono perché volevano provare il sapore delle sigarette e dell’acqua sudcoreane. “Era molto più leggera delle sigarette a cui eravamo abituati”, racconta Kang. Per quanto riguarda l’acqua, “era la stessa cosa. È acqua”, dice ridendo. “Ma tutto sembrava più interessante in quel momento”. Kang, come molti nordcoreani, ha imparato a conoscere la vita al Sud attraverso i programmi televisivi. Una cosa illegale, ma lo fanno tutti. “Non crediamo alla propaganda”, spiega Kang, che in questi mesi si è tinta i capelli, indossa gioielli color oro e lenti a contatto colorate, smanetta costantemente con lo smartphone e adora il caffè freddo. Si sta preparando per il college, vorrebbe studiare all’estero, con sé non ha portato quasi nulla dalla Corea del Nord. A parte quei quaderni di contabilità, che restano un memento costante della vita che hanno lasciato.
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Non c’è solo l’ex nunzio negli Usa Carlo Maria Viganò a minacciare lo scisma nella Chiesa cattolica e a contestare l’autorità pontificia. A Belorado, paesino nella provincia di Burgos, ci sono le temibili “Suore dei cioccolatini”, conosciute così per i dolci che producono a base di cioccolato. Da qualche settimana la loro fama si è diffusa per la ribellione aperta contro la Chiesa di Roma: ai loro occhi, infatti, dalla morte di Pio XII non c’è più stato un vero Papa sul soglio pontificio. Il primo atto a metà maggio, quando Isabel de la Trinidad, la badessa della piccola comunità di 15 suore clarisse, ha diffuso un “Manifesto cattolico” di 70 pagine in cui comunicava la decisione di lasciare la chiesa cattolica e di passare sotto la giurisdizione di Pablo de Rojas Sanchez-Franco, già scomunicato nel 2019 in quanto fondatore della setta “Pia Union de Santi Pauli Apostoli”, fortemente critica con il Concilio Vaticano II. Una decisione definita “irreversibile” dalle suore, anche dopo che l’arcivescovo di Burgos, Mario Iceta, nominato commissario pontificio dalla Santa Sede per provare a tamponare la situazione, aveva suggerito e concesso un periodo di riflessione. Dinanzi al rifiuto di rientrare nei ranghi, il 6 giugno Iceta aveva chiesto la consegna delle chiavi e dei libri contabili del monastero di Belorado, e invitato le clarisse a presentarsi al Tribunale ecclesiastico per rispondere del reato di scisma. Anche in questo caso, le suore si sono opposte,
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ABUSI E MOSAICI: IL CASO RUPNIK
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Le vittime di Marko Rupnik insorgono: “I suoi mosaici, realizzati anche durante veri abusi sessuali, vanno rimossi”. A dare sostegno alle vittime dell’ex gesuita interviene pure il presidente della Pontificia Commissione per la Tutela dei minori, un paladino della lotta agli abusi come il cardinale francescano Sean O’Malley: “Le opere possono offendere le vittime”, afferma in una lettera indirizzata ai dicasteri della Curia romana, “la prudenza pastorale eviti di esporre le opere d’arte in modo tale da implicare” una “indifferenza al dolore e alla sofferenza di così tante vittime di abusi”. Lo sloveno Rupnik, ex gesuita, mosaicista di fama mondiale, è attualmente sotto indagine da parte del Dicastero per la Dottrina delle Fede dopo che sono state finalmente ascoltate numerose denunce di abusi fisici, sessuali e psicologici ai danni di religiose ed ex suore. Il prefetto della Comunicazione Paolo Ruffini aveva difeso il mantenimento dei mosaici disseminati in chiese, santuari di grandissimo richiamo come Fatima, Lourdes, Aparecida, luoghi di culto e perfino dentro al Vaticano nella Cappella Redemptoris Mater. In una conferenza stampa ad Atlanta, negli Stati Uniti, ha argomentato così la sua difesa: “Come cristiani ci viene chiesto di non giudicare”, aggiungendo che “rimuovere, cancellare, distruggere l’arte non è mai stata una buona scelta” e ha citato il caso di Caravaggio. Non la pensano così le vittime, rivelando anche particolari scabrosi proprio attorno alla elaborazione di queste opere: esporre i mosaici in luoghi di culto, sostengono, è “inappropriata”.
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