Autonomia ed ipocrisia* di Vincenzo D’Anna*
Fu quel grande intellettuale borghese ed illuminato conservatore di Giuseppe Prezzolini a coniare il neologismo di “apoti”, parola derivata dal greco che significa “coloro che non la bevono”. Per quanto sparuta (e quindi largamente minoritaria) sia, questa categoria di persone che ancora ragiona con la propria testa, non è del tutto scomparsa dal Belpaese. A dispetto del qualunquismo e dell’ignoranza che pure si diffondono capillarmente attraverso la rete social, questa piccola fetta di italiani riesce ancora a valutare le cose con un sufficiente tasso di obiettività formandosi un’opinione personale frutto della conoscenza dei fatti e di un’avveduta cognizione di causa. Anche gli apoti tuttavia si sentono a disagio innanzi al gran battage della disinformazione politica e delle ipocrite e plurime dichiarazioni dei leader di partito sulla vicenda della cosiddetta “autonomia differenziata”. E’ in atto, infatti, una colossale campagna mediatica sulla reale portata della legge di recente approvata dal Parlamento, che stabilisce le modalità procedurali attraverso le quali le Regioni possono chiedere ed ottenere dallo Stato maggiori competenze organizzative ed operative nelle materie già loro delegate dal governo nazionale. E’ quindi chiaro che non ci troviamo innanzi ad un’ulteriore cessione di poteri dal centro alla periferia, ossia di ulteriori deleghe inerenti altre fattispecie che non siano state già previste nella carta costituzionale oppure inserite successivamente da norme dello Stato ratificate dalle Camere, che contemplino modifiche alla Magna Carta. Tuttavia così si lascia intendere da parte di quanti, esasperando la vicenda, gridano indignati allo scandalo per lo stravolgimento del dettato costituzionale che resta, invece, intatto. Tant’è che già sul versante delle opposizioni si invoca la necessità di un referendum che, se mai si farà, sarà di natura abrogativa e non certo di modifica costituzionale. Differenza non da poco oltre che largamente sconosciuta: nella consultazione abrogativa, infatti, non esiste un quorum pre-definito con il risulato che per cancellare la legge oggetto del quesito basterà la maggioranza dei voti validi espressi. Quindi la maggioranza di quelli che si recheranno alle urne. Nel referendum costituzionale invece, esiste il quorum minimo dei votanti da raggiungere fissato nel 50% degli aventi diritto al voto più uno. Un quoziente da raggiungere, come si vede, decisamente molto più alto. La seconda, ipocrita menzogna viene da chi oggi invoca l’abrogazione della legge, ossia da leader di partito che quella legge l’hanno sostenuta in altre epoche dando avvio al complesso iter prima che essa giungesse nelle Aule di Camera e Senato. Per capirci : il primo decreto in materia di autonomia differenziata porta la firma dell’allora premier Paolo Gentiloni (Pd) così come le prime intese con le regioni Emilia Romagna e Veneto che avevano avanzato richiesta in tal senso, furono sottoscritte dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte (M5S) e dal sottosegretario Gianclaudio Bressa (Pd) ex sindaco di Belluno. Insomma, addossare la paternità del provvedimento a chi ne ha solamente completato l’iter legislativo previsto, ossia il governo Meloni, è un ipocrisia bella e buona, con a corollario un evidente bugia storica. Veniamo quindi ai contenuti del provvedimento: esso prevede un lungo e farraginoso cammino per realizzare la maggiore autonomia gestionale nelle materie già delegate agli enti locali. Il decreto precisa ed individua il percorso a cui le Regioni dovranno assoggettarsi previa verifica ed accertamento funzionale delle proprie proposte. Per farla breve: non si tratta del Far West legislativo ed organizzativo e men che meno di un delega in bianco concessa dallo Stato. Tutto questo si traduce nella preventiva individuazione dei LEP (Livelli Essenziali di Servizi) che vanno garantiti ovunque in Italia, e da stabilirsi sempre di concerto con lo Stato. In soldoni: si potranno migliorare solo quei servizi che vengono erogati già in tutte le regioni italiane non certo introdurne di nuovi. E qui, a voler essere severi, casca l’asino! Sì, perché a far discutere semmai è proprio l’articolo che prevede che il tutto avvenga senza maggiori oneri finanziari per il governo statale.!! Questo significherà che le regioni più ricche (vale a dire quelle che incassano più soldi dalle tasse) potranno investire su scuola, sanità, trasporti, polizia urbana e agricoltura materie già delegate migliorando e potenziando i servizi (LEP) già esistenti. Di converso, al palo resteranno, more solito, quelle Regioni che producono minor ricchezza, a Nord oppure a Sud che siano, ed hanno dunque scarsa disponibilità finanziaria. Per la serie: parti eguali tra diseguali, come direbbe don Lorenzo Milani, la più grande delle ingiustizie. Ecco, è su questo che occorrerà che tutti ragionino, come evitare l’ennesimo divario esistente sui territori. Ma senza strepiti e soprattutto senza strumentali ipocrisie. Il Sud, con le debite risorse, si misuri finalmente sull’efficienza.*già parlamentare
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