A Renato Vallanzasca il permesso per la comunità di cura. La sua storia interroga sulla salute dei detenuti
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A Renato Vallanzasca il permesso per la comunità di cura. La sua storia interroga sulla salute dei detenuti
di Silvia Renda
L’ex capo della banda della Comasina è affetto da demenza. Antigone: “La popolazione nelle carceri è sempre più anziana e cresce quindi la domanda di salute, ma il sistema penitenziario è incapace di assolverla”
La prima volta che Renato Vallanzasca entrò in carcere, si trattava di un carcere minorile. Aveva 8 anni e insieme al fratello e a un’amica, sua futura moglie, provò a liberare gli animali di un circo. Rimase per due giorni nell’istituto Cesare Beccaria di Milano. L’ultima volta che Renato Vallanzasca commise un reato aveva 64 anni, era il 2014. Una rapina all’Esselunga, con un bottino del valore di settanta euro: due paia di boxer da uomo, cesoie e fertilizzante. Si trovava in permesso premio per tre giorni dal carcere di Bollate e venne processato per direttissima: dieci mesi, da cumulare con i quattro ergastoli e i 295 anni di reclusione. Sono crimini di ben altro tenore rispetto a quelli che hanno spostato il suo orizzonte sul “fine pena mai”. Sequestri, rapine, omicidi lo hanno reso uno dei criminali italiani più famosi e raccontati, feroce e spietato. Oggi ha 74 anni, di cui 52 trascorsi in carcere (con tre evasioni nel mezzo), e una forma di demenza che lo rende rappresentante di una popolazione di detenuti sempre più anziana, con problemi fisici e psichici conseguentemente in crescita. Un ulteriore peso sul sistema penitenziario italiano, nell’incapacità di assolvere il diritto alla salute di cittadini reclusi.
Di Vallanzasca si è tornato a parlare in questi giorni perché il Tribunale della Sorveglianza di Milano ha accolto il reclamo dei suoi legali, concedendogli il permesso di trascorrere del tempo in una comunità di cura. Secondo i consulente della difesa, il quadro cognitivo di Vallanzasca è ormai affetto da un “processo neurodegenerativo primario” ed è “deficitario” sotto il profilo della “memoria” e delle “capacità verbali”.
Per gli avvocati, l’aggravarsi della forma di demenza da cui è affetto, lo rende incompatibile col carcere. Vorrebbero per lui i domiciliari nella comunità di cura, ma al momento devono accontentarsi di aver ribaltato il precedente “no” all’ultimo permesso. Frequentare la struttura terapeutica è ritenuto utile alla risocializzazione e a rallentare il decorso del declino cognitivo. In passato nella comunità terapeutica andava almeno una volta a settimana. I permessi vennero revocati visto il decadimento cognitivo di cui soffre: secondo il giudice, non sarebbe più stato nelle condizioni di rispettare le prescrizioni, quindi gli orari e le modalità dell’uscita in permesso.
Un paradosso, per i legali: avrebbe bisogno degli incontri perché è malato, ma non può frequentarli perché è malato.
“Quello che accomuna Vallanzasca a una fetta crescente di detenuti nelle nostre carceri è l’età. Una popolazione più anziana ha una domanda di salute più alta e questo grava sul sistema penitenziario italiano”, commenta ad HuffPost Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio dell’associazione Antigone sulle condizioni di detenzione. I detenuti italiani stanno diventando sempre più anziani, le pene sono più lunghe, limiti di legge e altre difficoltà rendono difficile l’accesso alle misure alternative. Quindi i detenuti prolungano la loro permanenza negli istituti. Dati nazionali sulla loro salute praticamente non ne esistono. Dovrebbero raccoglierli le Asl, ma non lo fanno, dice Scandurra. Per riuscire a mettere insieme qualche numero bisogna andare indietro fino al 2015 e sfogliare la prima (e unica) indagine epidemiologica sullo stato di salute di un campione di detenuti delle strutture detentive di Toscana, Lazio, Umbria, Veneto, Liguria e dell’Azienda sanitaria di Salerno.
L’indagine è stata finanziata dal Ministero della salute e ha coinvolto oltre 15mila detenuti presenti in 57 strutture, per indagare sui trattamenti farmacologici loro prescritti. Il 70% risultava affetto da almeno una patologia: soprattutto disturbi psichici, malattie infettive e disturbi dell’apparato digerente. La prima patologia, che coinvolgeva il 24% dei detenuti dell’indagine, era la dipendenza da sostanze e la cocaina è la sostanza più utilizzata. Oltre il 40% era affetto da almeno una patologia psichiatrica. Poi ci sono le malattie infettive. Il carcere costituisce una comunità chiusa, sovraffollata, promiscua: un concentratore di patologie.
“Una delle questioni più lamentata dagli operatori è la difficoltà di rispondere alla domanda di salute degli istituti. Una domanda ineludibile”, commenta Scandurra di Antigone, “Le Asl dovrebbero farsene carico, ma i detenuti sono considerati cittadini di serie B, persone a cui concedere diritti e servizi più scarsi, perché hanno commesso reati”. Di reati, Vallanzasca ne ha commesso di efferatissimi. Alcuni anche nel carcere stesso. Nel 1981, mentre era detenuto nella prigione di Novara, contribuì a fomentare una rivolta nella quale vennero uccisi dei collaboratori di giustizia. Tra loro, anche Massimo Loi, poco più che 20enne, un tempo suo amico fraterno. Loi voleva cambiare vita e aveva deciso di pentirsi. Durante la rivolta, approfittando del caos, Vallanzasca lo colpì ripetutamente al petto con un coltello. Il corpo del ragazzo non venne lasciato in pace neanche esanime: decapitato, i detenuti giocarono a pallone con la sua testa. Vallanzasca ad ogni modo negò per anni il coinvolgimento nell’omicidio. Di rivolte, risse e pestaggi ne fomentò diversi negli istituti dove veniva recluso e che proprio per questi motivi continuava a cambiare in continuazione. In tre occasioni riuscì a evadere. Nel 1976 lo fece dopo aver contratto volontariamente l’epatite, iniettandosi urine per via endovenosa, ingerendo uova marce e inalando gas propano, con l’intento di essere conseguentemente ricoverato in ospedale. Una vigilanza meno stretta e l’aiuto di un poliziotto compiacente gli permisero la fuga.
Vallanzasca si è presentato ieri in tribunale con una coppola in testa e le scarpe da ginnastica. È solo l’ombra dell’uomo che conquistò un ruolo da protagonista nella mala milanese degli anni 70, a capo della banda della Comasina, uno dei più potenti e feroci gruppi criminali all’epoca nella città, in una spartizione di potere con la banda di Francis Turatello, rivale prima ed ex nemico poi, con un’alleanza suggellata nel 1979 durante il matrimonio in carcere a Rebbibbia: Turatello fu il suo compare di anello nelle nozze con Giuliana Brusa, una sua ammiratrice. Turatello e Vallanzasca: Faccia d’angelo e il bel René, come li chiamavano, per via di un aspetto pulito e attraente. Vallanzasca quel soprannome non l’ha mai sopportato. Eppure ancora adesso gli è rimasto appiccicato addosso, ora che gli stessi giudici lo riconoscono, mettendolo per iscritto, come “un uomo provato”, “segnato ovviamente da circa cinquant’anni di carcere”. Ma le varie richieste di grazia sono state respinte, il regime di semilibertà è stato revocato e le richieste di libertà condizionale negate, perché “non si è ravveduto e non ha risarcito le vittime”, né ha prodotto “comportamenti positivi da cui poter desumere l’abbandono delle scelte criminali”.
Così Renato Vallanzasca rimane in cella e si aggiunge alla lista dei numerosi reclusi affetti da patologie. L’Associazione Antigone – dalle visite effettuate in 81 istituti penitenziari negli ultimi 12 mesi – ha rilevato che su centro detenuti 8,81 sono affetti da diagnosi psichiatriche gravi. L’assenza del supporto psichiatrico e psicologico è cronico: la media si attesta intorno alle 8 ore settimanali ogni 100 detenuti per gli psichiatri e intorno alle 20 ore settimanali ogni 100 detenuti per gli psicologi. “I muri delle celle grondano muffa, quelli degli ospedali no”, dice Scandurra, “Non si riesce a invertire questo schema secondo cui i detenuti devono vivere in condizioni inadeguate, ragione di recidiva, quindi di sovraffollamento e dunque di medici che bastano sempre meno. Sono cittadini che non votano, che hanno commesso reati, ma c’è una cultura profonda che ritiene abbiamo meno diritti degli altri per questo motivo. È una violazione della legge. Un paradosso: loro stessi sono in carcere per aver violato la legge”.
(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)
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