Sudan: Oppizzi (Msf), “una violenza contro i civili inaudita, con attacchi alle infrastrutture e agli ospedali”
“E’ una guerra particolarmente cruenta. C’è una violenza contro i civili inaudita, con attacchi alle infrastrutture civili e alle strutture sanitarie, bombardamenti o guerriglia urbana. Nell’ultimo anno anche noi di Msf abbiamo ha subito tre attacchi”. A raccontare quanto sta accadendo in Sudan, scosso da una nuova guerra civile iniziata il 15 aprile 2023, è Vittorio Oppizzi, responsabile dei programmi in Sudan di Medici senza frontiere. Il conflitto contrappone l’esercito regolare Sudanese armed forces (Saf) alle Rapid support forces (Rsf), eredi delle famigerate milizie janjaweed che massacrarono i civili in Darfur. L’ultimo attacco è avvenuto la scorsa settimana, con paramilitari che hanno fatto irruzione nel South hospital a El Fasher, capitale dello stato di West Darfur. Hanno aperto il fuoco, saccheggiato le forniture mediche e rubato un’ambulanza di Msf. Tra il 25 maggio e il 3 giugno nello stesso ospedale altri due attacchi hanno ucciso due persone e ferite 14. Msf è stata costretta a sospendere immediatamente le attività ed evacuare il personale e i pazienti. Nell’ultimo periodo avevano curato almeno 1.300 feriti. Alcuni giorni prima nello Stato interno di Al-Jazira (è un governo federale) sono stati uccisi almeno 35 bambini e 20 feriti. Un recente report di Human rights watch, che ha raccolto 220 testimonianze, 110 foto, video e immagini via satellite, denuncia una vera e propria “pulizia etnica e crimini contro l’umanità” da parte delle Rsf e milizie collegate (tra cui i gruppi arabi del Darfur) avvenuti tra aprile e novembre scorso a El Geneina, nel West Darfur. Secondo un panel di esperti Onu in quell’area sono stimate tra le 10.000 e le 15.000 vittime, compresi adolescenti, donne e bambini. Le donne sono spesso vittime di stupri, i villaggi bruciati e saccheggiati. Dall’inizio del conflitto ad oggi ci sono 8 milioni di sfollati interni, 500.000 rifugiati in Ciad e altri 600.000 in Sud Sudan.
Oltre 25 milioni di persone hanno bisogno di aiuti umanitari. Una cifra immane, mentre i finanziamenti internazionali scarseggiano.
Attacchi alla popolazione e alle infrastrutture civili, blocchi agli aiuti umanitari. “Ci sono violenze da entrambe le parti che dipendono dalle armi e dalle capacità tecnico-militari: da un lato ci sono combattimenti strada per strada e guerriglia urbana, con attacchi alle zone civili; dall’altra arrivano bombardamenti aerei indiscriminati, con l’utilizzo di droni”, racconta Oppizzi. “Purtroppo dall’inizio del conflitto non c’è stato nessun rispetto per la popolazione: vengono colpite anche infrastrutture civili, come le forniture idriche, di elettricità, e questo è contrario al diritto internazionale umanitario”.
“E’ una guerra con tattiche militari senza pietà,
con un impatto sulla popolazione sia diretto, come nel Darfur, sia indiretto attraverso gli attacchi alle infrastrutture, che hanno poi un impatto più duraturo perché impediscono alla popolazione di tornare una volta finiti gli scontri”. La fase iniziale del conflitto era concentrata a Khartoum, per cui una grossa parte della popolazione si è spostata verso sud, nello stato di Al Jazira, principalmente a Wad Madani. Questa città è stata poi attaccata e le persone dopo sei mesi si sono dovuti spostare di nuovo: “Possiamo immaginare le conseguenze”. L’altro grosso problema sono i limiti e i blocchi all’accesso umanitario in alcune aree del Paese, soprattutto dove il conflitto è più violento: “Anche noi operiamo in grossa difficoltà. Un fatto inaccettabile, ma si è ripetuto più volte”.
Quella in Sudan “è una guerra particolarmente cruenta”, diversa da altri conflitti in cui le linee del fronte non si spostano molto. Qui avviene il contrario: “Khartoum resta un posto ancora conteso, e quindi molto dinamico e molto violento – dice Oppizzi -. Le vittime civili non sono state risparmiate da nessuna delle parti in conflitto, quindi per noi la prima preoccupazione è la sicurezza: operare in sicurezza per il nostro staff e per i pazienti”. Nonostante i pericoli Msf cerca di garantire la sicurezza degli operatori attraverso un’analisi dei rischi più aggiornata possibile. Ciò che caratterizza questo conflitto così “attivo e volatile” è “la durata, il livello di violenza, l’impatto che ha avuto sul Paese e sulla regione”, con pochi “posti sicuri” dove poter fornire una risposta umanitaria. Inoltre “negli ultimi anni i donatori internazionali hanno continuato a ridurre gli aiuti in Sud Sudan e in Ciad, dove sono i campi per rifugiati e l’assistenza internazionale è totalmente inadeguata. Ora la stagione delle piogge è in arrivo e non vengono forniti i kit di base per costruirsi un proprio riparo”. Il disinteresse internazionale rende poi la crisi ancora più drammatica.
“Purtroppo sappiamo bene che i fondi arrivano se c’è attenzione e interesse”.
Msf è presente con cinque centri operativi in 9 Stati del Sudan, supportando più di 30 strutture sanitarie, ospedali o centri di salute primaria, con un migliaio di operatori tra personale nazionale e internazionale (meno del 10%). L’organizzazione, che lavora in Sudan dagli anni ’80 e può contare su una forte capacità locale sanitaria, ha centri propri oppure supporta il personale del Ministero della Salute, anche inviando forniture mediche.
Ad oggi sono stimate meno del 30% delle strutture sanitarie ancora funzionanti.
Dopo l’ultimo attacco, spiega, “stiamo cercando di trasferire i servizi del South Hospital in altre strutture. Continuiamo a lavorare anche in un campo a Zamzam, a sud della città. Una parte della popolazione continua ad abbandonare la città e quindi dobbiamo identificare i luoghi dove gli sfollati possono sentirsi al sicuro e portare lì i servizi essenziali. È una situazione che resta molto fluida quindi stiamo ancora valutando le varie opzioni”. L’ultima sfida da affrontare è la mancanza di accesso alle cure essenziali e l’emergenza nutrizionale: “Perciò stiamo aumentando la risposta alla malnutrizione”.
Gli appelli. L’organizzazione medico-umanitaria continua a chiedere a tutte le parti in conflitto che
“la protezione dei civili, delle infrastrutture civili e del personale sanitario resti una priorità”.
Alle Nazioni Unite chiedono di intercedere “per far sì che le parti rispettino gli obblighi del diritto umanitario internazionale e i donatori internazionali aumentino i finanziamenti per la risposta umanitaria in Sudan. Senza questi impegni è difficilissimo continuare a avere una risposta umanitaria adeguata a bisogni così enormi. In caso contrario la crisi continuerà a peggiorare”.
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