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Attacco a Rafah. Brignone (Oasis): “Israele è nel pantano”

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Almeno 45 morti e oltre 180 feriti: è questo il bilancio del raid israeliano di ieri contro due leader di Hamas a Rafah, nel quartiere di Tal al Sultan, nel sud della Striscia di Gaza. Si tratta di Yassin Rabia e Khaled Nagar, responsabili, secondo Israele, delle operazioni in Cisgiordania e di numerosi attacchi contro Israele. L’attacco è stato effettuato “sulla base di precise informazioni di intelligence”, si legge in un comunicato dell’esercito israeliano (Idf), “a seguito dell’attacco e del conseguente incendio sarebbero state colpite diverse persone non coinvolte; l’incidente è in fase di esame”. Il raid è stato condannato dalla comunità internazionale che chiede la fine delle operazioni militari. Il premier Benyamin Netanyahu ha definito la strage di civili “un tragico incidente di cui rammaricarsi”, mentre una commissione indipendente sta gestendo l’indagine aperta dalla procura militare. Hamas ha definito l’attacco l’ennesimo “massacro sionista” e ha annunciato che non tornerà al tavolo negoziale, promosso da Qatar, Egitto e Usa – previsto per oggi – per discutere una nuova tregua e il rilascio dei circa 120 ostaggi israeliani.

People, including children, wait in a long line to receive a small amount of food in the city of Rafah, southern Gaza Strip. (foto: Unicef)

“Questa di Rafah – commenta al Sir Michele Brignone, direttore delle ricerche della Fondazione Oasis – è una strage che allontana un auspicato accordo per il cessate il fuoco. Un massacro che giova – ‘tra virgolette’ – all’attuale governo e in particolare al Primo Ministro che da tempo ha dichiarato che l’obiettivo finale di questa guerra è una vittoria totale”. Posizione ribadita ancora una volta ieri in un intervento alla Knesset, come riferito dal Times of Israel: “io continuerò a combattere finché non sarà issata la bandiera della vittoria. Non intendo porre fine alla guerra prima che tutti gli obiettivi siano stati raggiunti. Se cediamo, il massacro tornerà. Se ci arrendiamo, daremo un’enorme vittoria al terrorismo, all’Iran”. “Vittoria totale” spiega Brignone, che insegna al Master in Middle Eastern Studies dell’Alta Scuola in Economia e Relazioni internazionali (Aseri, Università Cattolica di Milano), “significa estirpare Hamas dalla Striscia di Gaza, obiettivo noto sin dall’inizio della guerra. Ora, dopo mesi di guerra, dopo stragi su stragi, Hamas è sicuramente indebolita, ma tutt’altro che estirpata non solo perché è ancora presente nel sud della Striscia – ed è il motivo di questa ultima operazione militare – ma sta rinascendo anche in altre zone come segnalato da molti, anche da funzionari americani.

Netanyahu – ricorda Brignone – ha bisogno di sopravvivere politicamente e questa sopravvivenza è legata da un lato al proseguimento della guerra, e dall’altro anche da una ‘chimerica’ vittoria totale”.

Questo massacro, aggiunge l’analista, “giova in parte, purtroppo, anche ad Hamas che ultimamente riesce a reclutare nuovi combattenti, proprio sulla base delle stragi che vengono commesse dall’Idf”.

(Foto ANSA/SIR)

Direttore, chi sta vincendo questa guerra
Credo stiano perdendo entrambi i contendenti: Israele perché non riesce a portare a termine la sua operazione che non ha, al di là di questa idea della vittoria finale, obiettivi ben definiti. Israele non sta vincendo perché è lontano dagli obiettivi dichiarati dal suo Governo e oggi si ritrova in un pantano. Non può arretrare perché sarebbe una forma di ammissione di sconfitta. L’Idf non riesce ad andare avanti se non con queste azioni eclatanti e tragiche. Non vince nemmeno Hamas perché le sue forze militari sono state pesantemente colpite. Tuttavia, la sua sopravvivenza può essere intesa come una non sconfitta o una quasi vittoria.

Come uscire da questo pantano? La comunità internazionale, paesi mediatori come Egitto, Qatar, Stati Uniti, hanno ancora un ruolo da giocare?
Gli attori regionali possono fare molto e hanno in parte tentato di giocare il loro ruolo, soprattutto a livello di mediazione. Sappiamo che ci sono stati diversi negoziati, soprattutto per arrivare a un cessate il fuoco. Tutti falliti, a parte il primo accordo, alla fine dello scorso anno. L’attore che può cambiare qualcosa è solo uno: gli Stati Uniti. Bisogna anche dire che l’amministrazione Biden è stata estremamente ambigua fino a questo punto. All’inizio dell’operazione di terra a Gaza, il portavoce della Casa Bianca disse chiaramente che non c’erano linee rosse. A un certo punto, però, sembrava che la linea rossa fosse diventata l’operazione a Rafah. Linea rossa già abbondantemente violata. Un paio di settimane fa il presidente Usa, Biden, aveva stoppato una fornitura di armi pesanti a Israele, entrando in collisione con Netanyahu, ma senza grandi conseguenze. Quest’ultimo ha dichiarato che Israele è pronto ad andare avanti anche da solo.

C’è poi un’altra guerra che si sta giocando sul piano della propaganda e della comunicazione. Anche qui: chi sta vincendo?
Sul piano della propaganda Israele sta perdendo questo conflitto anche a causa di errori di comunicazione con notizie date e poi smentite, di versioni dei fatti molto dubbie e, soprattutto a causa delle dimensioni dell’operazione militare, con la sproporzione tra l’offesa ricevuta e la reazione messa in campo. Hamas, dal canto suo, vince perché riesce a farsi passare come un movimento di resistenza, come recita lo stesso nome – Hamas è l’acronimo di movimento islamico di resistenza -. Negli ultimi 10-15 anni, Hamas ha cercato di legittimarsi tra i palestinesi come movimento di resistenza nazionale contro l’occupazione. La guerra in corso ha rilanciato la questione palestinese che era stata trascurata ed emarginata. Hamas si può intestare, in questo momento, il merito di averla riportata all’attenzione del mondo.

A proposito di causa palestinese: ritiene giusto accusare di antisemitismo tutti coloro che, in questo contesto di guerra, sostengono la causa palestinese senza per questo appoggiare Hamas?
No, non è giusto. Questa accusa è diventata una sorta di clava che si usa per delegittimare ogni forma di critica. Non dimentichiamo che ci sono anche tantissimi ebrei che solidarizzano coi palestinesi, ma non con Hamas, e che vengono accusati di antisemitismo. Venerdì scorso sul quotidiano israeliano Haaretz è uscito un articolo dell’ex Primo Ministro Ehud Olmert, che è stato l’ultimo premier ad aver avuto colloqui con i palestinesi, nel quadro del processo avviato con gli accordi di Oslo. Nel suo articolo Olmert, che non può essere accusato né di antisemitismo né di antisionismo, dice molto chiaramente che il governo attuale ha le mani sporche di sangue e sta creando un danno enorme allo Stato di Israele.

Credo che l’accusa di antisemitismo lanciata sistematicamente verso chi appoggia la causa palestinese abbia perso qualsiasi fondatezza.

Con questo non voglio certo negare un evidente rigurgito antisemita in tutto il mondo e non solo nei confronti degli ebrei che vivono in Israele.

In che modo la Fondazione Oasis, che studia dal 2004, suo anno di nascita, le vicende mediorientali dando spazio a voci autorevoli e idee che parlano di dialogo e di pace, sta seguendo questo conflitto?
Seguiamo e raccontiamo il conflitto da diverse prospettive. Ogni venerdì mandiamo una newsletter che si chiama su Focus attualità che, attraverso le opinioni che troviamo sulla stampa internazionale, riferisce quanto accade. Poi facciamo degli approfondimenti su alcuni aspetti specifici del conflitto dando spazio a voci significative e autorevoli come quella del patriarca di Gerusalemme dei latini, il card. Pierbattista Pizzaballa. Un osservatore molto lucido e una voce profetica perché sa indicare una strada, lunga e anche dolorosa, per uscire da questo conflitto ultradecennale.

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